Alice

Alice

La mia unica certezza è di essere stata amata

Viaggio di condivisione del 2018

L’Africa subsahariana , per chi non lo sapesse, è una terra estremamente fertile. Non mi riferisco ai miracoli agricoli che accadono durante la stagione delle piogge, che ci sono stati soltanto raccontati e non abbiamo avuto il privilegio di vedere, ma alla semina silenziosa che cade inconsapevolmente sui suoi visitatori in qualunque stagione, i quali dopo un vuoto apparente si sentono come rigogliosi nell’animo e nel cervello, parte di un processo lento, come la botanica e i ritmi dell’Africa in generale. Questa è la sensazione di chi torna da un’esperienza come la mia.
Il viaggio è iniziato ad essere reale solo oltrepassando l’aeroporto di Dar Es Saalam: una traversata in pulman che assomiglia di più ad un infinito film muto, fatto di bambini che escono dalle baracche in camicia e pantaloni correndo verso la scuola, giovani ragazze lasciate sole nel mezzo del nulla a pascolare le mucche, Masai che camminano dritti sul ciglio della strada con le loro vesti rosse, e molte altre immagini complesse e veloci. Sebbene sia lungo e snervante, quando lasci l’asfalto e inizi a vedere il paesaggio filtrato dalla terra rossa, ti rendi conto che ne è valsa la pena.
La prima sensazione avuta arrivando al villaggio di Mkongo Nakawale è stata di estrema curiosità e di accoglienza, ancor prima che qualcuno mi dicesse “Karibu!” (benvenuta), e un’impressionante fiducia in noi, frutto di diciotto anni di collaborazione incessante con gli abitanti e le loro necessità; l’aspetto del villaggio è ciò che mi ha convinto, dato che l’associazione è riuscita a far convivere condizioni di vita migliori (costruzioni in mattoni, scuole e un dispensario) senza deturpare il paesaggio con qualche folle idea occidentale, perché è il prodotto della volontà e del lavoro della comunità.
I giorni che passano sono una continua scoperta, un cammino incessante per mano ad uno straniero, che questa volta ero io! Inizialmente tendevo a idealizzare questi uomini e donne forti, sorridenti, autentici in modo antico e con quella saggezza che deriva dalla mancanza di beni necessari, ma è importante ricordare che sono uomini, non creature diverse, fratelli da aiutare e comprendere ad ogni costo. La loro lingua così diversa, lo swahili, le loro abitudini regolate dalla luce del sole e la libertà che viene data ai bambini ti fanno subito innamorare di questo popolo in difficoltà.
I momenti emozionanti sono stati tanti: svuotare le valigie piene di medicinali, trasportare insieme la terra e i mattoni per la nuova falegnameria, giocare con i bambini, i più curiosi di tutti, assistere alle visite mediche, distribuire latte e biscotti all’asilo, decidere i progetti, investire i nostri soldi nei materiali per la scuola professionale di sartoria, falegnameria e muratura e fare amicizia con alcuni dei meravigliosi studenti.
Non eravamo lì per fare “tanto”, non lavoravamo tutto il giorno ed è stato difficile da accettare, ma non eravamo neanche sostituibili con dei container pieni di oggetti. Il bisogno di risorse che hanno è equivalente a quello di dialogare, cercare un contatto nella diversità, persino nutrire affetto in questo scambio culturale così ricco e genuino.
Pensano che noi, in occidente, abbiamo tutto, ma eravamo i primi bisognosi di questi rapporti umani, di osservare la loro vita semplice resa forte dal senso di comunità e dalle poche risorse a disposizione.
Volevo aiutarli e spero di averlo fatto, ma ora la mia unica certezza è di essere stata amata e aiutata a vedere la realtà con colori diversi, più vividi, forse gli stessi con i quali amano vestirsi.
Non esiste ringraziamento che possa rendere giustizia all’ospitalità e alla gentilezza provate sulla nostra pelle, ma mi rivolgo specialmente a Sesilia , Angelica, Jordan, Renata e Baba Erik per averci offerto con premura tutto ciò che potevano darci, ancor prima di conoscerci e senza chiedere nulla in cambio. Niente di tutto questo verrà dimenticato.

Asante sana

Alice

Lisa

Lisa

L’essere umano ha una capacità meravigliosa: aiutare

Viaggio di condivisione del 2017

L’essere umano ha una capacità meravigliosa: aiutare.
Vorrei riflettere su quanto sia importante conoscere, entrare in contatto con persone, con abitudini, storie ed usanze diverse dalle nostre.
La diversità è una ricchezza: è bello vivere nuove esperienze, imparare a confrontarsi con culture distanti dalla propria, possibilmente divertendosi.
Credo che sia semplicistico giudicare determinate situazioni senza averle vissute, senza essersi sforzati di aprire soltanto un occhio di fronte a certe immagini, a certe persone. Proprio per questo ritengo sia fondamentale che sin da giovani i ragazzi sviluppino una propria idea, cerchino di collaborare, di essere aperti e disponibili nei confronti degli altri e della società.
Credo che non si smetta mai di meravigliarci e di imparare; certe esperienze sono necessarie per apprezzare ciò che possediamo e per renderci conto di quanto siamo fortunati ad avere cibo, acqua corrente ed elettricità a disposizione.
Ho deciso di partire per l’Africa qualche anno fa, quando, vedendo video e immagini, ho iniziato a sentire il bisogno di vivere questa esperienza. Ho sognato varie volte il momento in cui mi dicessero “Lisa allora si parte!”.
E così un giorno questa frase è stata detta per davvero e io sono diventata la persona più felice del mondo.
Sognavo di andare in Africa come viaggio di maturità e così è stato.
Senza l’aiuto del corso organizzato da “Missio Fiesole”, senza “Neema” e senza l’aiuto dei miei genitori, sicuramente questo viaggio non sarebbe stato possibile e proprio per questo motivo non smetterò mai di ringraziare ognuno di loro.
Sono partita per la Tanzania e ho trascorso presso il villaggio di “Mkongo” tre settimane.
Arrivati in Tanzania abbiamo trovato soltanto persone gentili, disposte ad andare a prendere l’acqua lontano chilometri per farci sentire a casa, persone che volevano a tutti i costi cucinare per noi e servirci, ragazze che ogni volta spazzavano la nostra stanza e ci chiedevano se avevamo bisogno di qualcosa.
Un’altra nostra grande fortuna è stata quella di avere con noi Baba Erik, una persona d’oro dotata di gentilezza e intelligenza impensabile. Assieme a lui voglio ricordare Renata, una donna meravigliosa che cucina benissimo, sempre col sorriso sulle labbra. Insieme a tutti i bimbi del villaggio, nel mio cuore porto in modo particolare Elias, il bimbo a cui mi sono affezionata maggiormente e che spero di rivedere al più presto.
Durante il nostro soggiorno abbiamo avuto la possibilità di trascorrere del tempo nel dispensario, una sorta di ospedale dove le persone si recano per fare accertamenti in caso di scarsa salute o semplicemente dove il lunedì mattina le mamme si recano per fare vaccinare i loro bambini.
Abbiamo visitato il convento delle suore, molto curato e trattato anche nei minimi dettagli. Le suore sono gentilissime, sempre sorridenti e disponibili a venirci incontro Per qualsiasi bisogno.
Siamo stati a visitare la loro scuola, andando a portare matite, pennarelli, astucci e quaderni ai bambini.
Impossibile scordare il loro sorriso di fronte ad una nuova matita.
Abbiamo trascorso del tempo con i muratori, abbiamo imparato con loro a fare la calcina e a posizionare i mattoni per costruire i vari edifici. Nonostante siano privi di tecnologia, non si può dire che non siano capaci di cavarsela ugualmente! È veramente curioso vedere come la mente umana riesce sempre a trovare la giusta soluzione, l’idea più appropriata per svolgere le cose al meglio.
Abbiamo trascorso molto tempo con i bambini del villaggio, abbiamo giocato molto con loro: basta un fazzoletto, una pallina o semplicemente il proprio corpo per formare un enorme gruppo di persone che giocano spensierate e si divertono insieme.
Non hanno giochi ma tanta voglia di giocare: si divertono con i sassi, con palline di carta, si divertono a correre, a saltare e cantare, non hanno un telefono di ultima generazione ma hanno tanta voglia di stare insieme, costruire montagne di legnetti, muovere quelle gonnelline che hanno addosso o giocare con i cagnolini che corrono liberi nel villaggio.
Con un pomodoro e un po’ di fagioli mangia una famiglia intera, vivono in case fatte di mattoni o di fango e il loro tetto è spesso costruito con la paglia. La cosa straordinaria di queste persone è la forza.
Gli abitanti di Mkongo sono “poveri” di fronte ai nostri occhi ma sono veramente ricchi di sentimenti e di capacità di trasmettere a noi il doppio di quanto noi riusciamo a dare a loro con le cose materiali.
Sono persone capaci di essere felici per ciò che hanno.
Probabilmente noi siamo più evoluti, ma talvolta siamo talmente tanto avanti da dimenticare ciò che invece è semplicissimo e fondamentale: la capacità di dare un abbraccio, di dire “grazie” o semplicemente di fare un sorriso a chi ne ha bisogno.
Quando parlo di integrazione e di scambio intendi dire proprio questo: un confronto, un’integrazione di mille colori per comporre tutti insieme un bellissimo arcobaleno.
Nonostante sentissi da tempo la voglia di partire, inizialmente molti dubbi hanno invaso la mia testa, ma ad un certo punto capisci che è inutile negare a se stessi una sensazione e quindi decidi di partire semplicemente perché “è più forte di te”.
Credo che sia fondamentale che ciascuno di noi insegua sempre i propri sogni: inizialmente si può sentire soltanto una piccola scintilla ma, col passare del tempo, questa cresce sempre di più e non c’è cosa migliore che aprire gli occhi e trovarsi con i piedi immersi nella sabbia rossa e tanti bambini che sorridono intorno a te.
“Uomo bianco ricorda: abbiamo due orecchie ed una bocca per ascoltare di più e parlare di meno”
Lisa

Eleonora Galeotti

Eleonora Galeotti

Ho vissuto migliaia di occhi

Viaggio di condivisione del 2017

Era diverso tempo che sognavo di andare in Africa e quest’estate ho avuto l’opportunità di partire in missione insieme ad altri ragazzi per circa 21 giorni, sicuramente troppo pochi per potersi immergere appieno in una realtà cosi diversa dalla nostra ma comunque sufficienti a far comprendere i veri valori della vita. In mezzo a mille difficoltà, alla voglia, nei primi due o tre giorni, del proprio letto, alla voglia di usare un cellulare, postare foto o alla voglia di tirare uno sciacquone e lasciar scorrere l’acqua mentre ti lavi il viso o i denti, ho vissuto accanto a queste persone sempre sorridenti, amorevoli e pronte veramente a tutto per aiutarti. Ho vissuto migliaia di occhi, di cuori, di pensieri diversi tra i sorrisi gioiosi dei bambini mentre giocavano insieme a noi e ripetevano in continuazione “Dada Lina pipi” per chiederci delle caramelle, le facce speranzose delle donne e la voglia dei ragazzi di imparare qualche parola in italiano, contraccambiata dalla nostra di imparare qualcosa nella loro lingua, il swahili. Superati i primi giorni cominci ad ambientarti, a guardarti intorno, a scoprire persone e panorami a dir poco meravigliosi. Non vedi l’ora di cominciare una nuova giornata, cercando di “catturare” l’affetto e il calore che ti danno per portartelo dietro tutto il giorno scoprendo quella spensieratezza. Non vedi l’ora di abbracciare tutti i bambini e giocare con loro.
E’ un popolo apparentemente triste, non hanno acqua, cibo, giocattoli, eppure sorridono sempre, hanno quei sorrisi che riempiono di vivacità le tue giornate, quei sorrisi cosi semplici ma carichi di tutta la loro gioia di vivere. E non potete immaginare la mia felicità nel ritrovarmi a stringere nella mia mano quattro manine dei bambini mentre passeggiavamo. Quello che più rimane impresso sono gli occhi dei bambini, grandi, profondi e disarmanti: li guardi, li osservi e impari che si può vivere diversamente con meno cose e qualche sorriso in più.
Non è facile spiegare ciò che accade dentro di noi quando si vive un’esperienza simile, perché raccontarlo non è come viverlo in prima persona. Al mio ritorno ho capito che sicuramente ciò che ho ricevuto è molto di più di quanto ho dato, spero di poter tornare per rivivermi i colori, ritmi, usanze e tutte le persone incontrate che mi sono rimasti impressi e che mi ritornano in mente ogni sera prima di addormentarmi.
Ho apprezzato e condiviso tutto il possibile di quel popolo perché mi sono sentita accolta, parte di loro, cosi da provare un senso di libertà indescrivibile. Ho potuto rivalutare alcuni aspetti della mia vita e capire che povertà non è sinonimo di infelicità e che non c’è niente di scontato in quel che si ha. Consiglio a chiunque di trovare un po’ di tempo per poter intraprendere quest’esperienza che porterete nel cuore sicuramente.

Eleonora G.

Francesco Raspini

Francesco Raspini

Una avventura che ha prodotto tanti frutti

Viaggio di condivisione del 2017

Ed eccomi qua, dopo tanti anni col naso all’insù ad annusare l’aria per ritrovare i profumi di quella sera appena sceso dall’aereo, avvolto nel caldo tropicale, spaesato e un po’ impaurito, insieme ai miei compagni di avventura. Partiti un po’ per caso, un po’ per curiosità, ai piedi di quella scaletta d’aereo, muovevamo i primi passi in una avventura che non sapevamo avrebbe prodotto tanti frutti.
Così mentre mi giro su me stesso in cerca di quelle sensazioni, i ricordi si affollano alla mente, mentre trascino le mie valige stra-pesanti e ondeggianti fuori dalla hall.
Dopo tredici anni mi riaffaccio in questo paese meraviglioso con la curiosità di vedere cosa è successo al villaggio dove ho lasciato un pezzo di me stesso tanto tempo fa.
Ho una strana e leggera ansia, che non so spiegare, ma che lascio fluire dentro senza contrastarla. Sarà la paura di non trovare quello che mi aspetto, ma poi in fondo cosa mi aspetto.. non lo so. E sarà per questo che provo quella strana sensazione che chiamo ansia.
Comunque non c’è tempo per star troppo a pensare, è arrivato Eric ed è una gioia ritrovarlo e sentire che il tempo non ha scalfito il legame che era nato allora, in modo semplice e spontaneo, senza tante parole. Nessuno dei due ama troppo parlare, basta lo sguardo e un sorriso d’intesa.
Dopo i saluti e le immancabili complicazioni sul trasporto dei bagagli siamo già in viaggio.
Attraversiamo il paese da Dar giù verso il sud, tra paesaggi che via via si riaffacciano alla mente come familiari e rassicuranti. Già sento che questo sarà un viaggio diverso, forse meno operativo, ma ancora non so e non voglio sapere. Mi lascio portare senza chiedere troppo cosa farò.
E cosi dopo due giorni di viaggio arriviamo a Mkongo. Mi ritrovo ancora una volta ad affinare tutti i sensi per ritrovare quella atmosfera che avvolge quel pezzo di terra sperduta e d’incanto tutti i ricordi riaffiorano e la sensazione più forte è quella di sentirsi a casa.
Già a prima vista posso vedere le nuove costruzioni che negli anni son venute su anche grazie al nostro impegno, ma quell’aria che sembra immobilizzare il tempo mi colpisce ancora di più, mi attira a sé e mi immerge in quella realtà che sembra sempre sospesa sul trascorrere degli eventi.
Respiro a pieni polmoni e ad ogni respiro mi sento pervadere di più da quella atmosfera.
Ritrovo gli amici lasciati l’ultima volta, ne conosco altri e tutto è sempre cosi naturale che quasi mi sembra strano.
Cosi i giorni cominciano a scorrere tra il dispensario e le varie faccende da sbrigare per organizzare i lavori futuri che completeranno la struttura e nel frattempo si consolidano i rapporti, fra di noi cinque compagni di viaggio e con gli abitanti. E via via comincio a scoprire il senso di questo mio viaggio.
Sento che sta diventando un viaggio dell’anima. Un viaggio alla scoperta del valore dei rapporti che abbiamo costruito in tutti questi anni con quella gente.
Era il 2000 quando arrivammo in un villaggio sperduto e quasi irraggiungibile, dimenticato e apparentemente insignificante. Privo di qualsiasi minima risorsa se non quella necessaria appena per sopravvivere, dove toccavi con mano l’impossibilità di cambiare qualcosa perché troppo poveri, troppo soli, quasi inermi difronte ad un mondo lontano che più avanzava , più li lasciava indietro in balia di se stessi, inesorabilmente.
Istintivamente iniziammo a riparare quello che era rotto da anni.. qualche vetro alle finestre, qualche porta.. non c’erano nemmeno chiodi e martello. Nulla. E quando dico nulla è proprio nulla. Io con le mie valige di medicine mi misi al sevizio di una fila di gente interminabile che non vedeva un medico da anni, con le mie poche cose e conoscenze, ricordo davo tutto con una gioia dentro ricambiata dalla gratitudine che vedevo nei sorrisi di che veniva da me, anche se magari non potevo fare nulla per lui. Ma sempre venivo ringraziato con un sorriso. Ed ero pieno di riconoscenza per quella gente, gonfio di emozioni che non immaginavo poter contenere.
Dovevo finire in fondo al mondo per trovare una felicità cosi.
Scoprimmo io e i miei compagni di viaggio che oltre le cose materiali mancava la cosa più importante: il rapporto con qualcuno che li facesse sentire meno soli. Il senso di solitudine, la consapevolezza della distanza incolmabile tra loro e il resto mondo.
Cosi capimmo che se volevamo fare qualcosa di utile dovevamo muoverci su due fronti contemporaneamente: l’aiuto materiale e la costruzione di un rapporto umano fraterno.
Cosi in questi anni si è mossa l’Associazione, che non a caso si chiama “ Neema”, Anima.. si perché è l’anima che muove la mano e la indirizza nel verso giusto.
Questo pensavo dentro di me in quei giorni e mi rendevo conto di quanto grande è stata l’ intuizione.. sicuramente una Ispirazione dall’Alto che, se posso essere un po’ presuntuoso, siamo stati bravi ad ascoltare. Ognuno ha fatto la sua parte, anche da lontano. Chi più operativo, chi meno, ma non meno coinvolto.
Cosi ho passato il mio tempo in quelle settimane, facendo, ma soprattutto contemplando quello che era stato costruito negli anni e rendendomi conto di quanto importante fosse per quella splendida gente stare fisicamente con noi, condividere un pasto, un dialogo, un sorriso.
Non conta solo il dispensario e le costruzioni che son seguite, pur di importanza vitale ovviamente, ma basterebbe dare un valore al sorriso che è nato sulle labbra di un bambino o di un vecchio o di un donna, per capire che è valsa la pena di buttarsi in questa avventura.
E come ulteriore conseguenza del nostro impegno ho visto come questa impresa sta permettendo a quelle popolazioni di svilupparsi secondo i loro tempi e le loro aspettative. Il nostro lavoro è di supporto ad uno sviluppo autonomo e libero. Questa è vera cooperazione e un risposta, pur nel nostro piccolo, a molte domande che emergono prepotenti dai fatti di questi ultimi tempi in relazione ai flussi migratori.
Son tornato ancora una volta carico di gratitudine e con un bagaglio di esperienza che arricchisce la mia vita e spero, un po’, anche quella di chi leggerà queste righe, se sarò stato capace di trasmettere, almeno una piccola parte di quello che abbiamo vissuto nella terra delle nostre origini.

Francesco R.

Stefania

Stefania

Cosa c’è che non va in questo mondo?

Viaggio di condivisione del 2004

Finalmente ho realizzato un sogno che tenevo nel cassetto dal lontano 1966! Andare in Africa! Il villaggio dove siamo stati io ed altre sette persone con le quali ho condiviso questa esperienza, si chiama Mkongo ed è situato a sud della Tanzania. E’circondato da altri 6 o 7 villaggi; la distanza degli uni dagli altri non sono riuscita a quantificarla, gli spostamenti, comunque erano lunghi e tortuosi ma li abbiamo visitati tutti portando ai bambini latte e biscotti. Certo non con la presunzione di risolvere, almeno per quei giorni, il problema fame, ma in punta di piedi, chiedendo permesso alla porta del villaggio con un dono in cambio della loro ospitalità. Adesso qualunque episodio racconti, anche solo la descrizione di paesaggi, mi sembra inadeguata e sminuita, perché negli occhi di chi ascolta non ritrovo il mio vissuto, le mie parole con riescono ad esprimere sentimenti tanto intensi.
Non riesco a trasmettere le mie emozioni che sono state fortissime e sono indenni nel mio cuore che comincia a battere rumorosamente ogni volta che chiudo gli occhi e rivedo quei momenti tutti africani. Stefy, raccontami tutto! E’ come si vede in televisione? Non hanno cibo a sufficienza? Sono cristiani o musulmani? Come posso rispondere? Si, è vero tutto. Hanno poco cibo e sempre quello. Non hanno acqua, luce, le scuole sono appena sufficienti per imparare a leggere e scrivere, muoiono di malaria e vivono costantemente nella polvere rossa fuori e dentro le loro capanne. Ma quello che la televisione non fa vedere è, nella loro povertà e rassegnazione, la loro dignità, la loro tranquillità e oserei dire serenità, proprio di un popolo che conosce solo il perimetro della sua terra.
Gente che non conosce il “male di vivere”, quel male che sta distruggendo la nostra società cresciuta troppo in fretta senza un’adeguata conoscenza. Il male di crescere senza conoscere. Appena sono arrivata il nodo alla gola per l’eccessiva contentezza ha cominciato a sciogliersi attraverso alcune lacrime; ho visto in maniera offuscata e ondulata, una quantità incredibile di bambini che ci sono venuti incontro urlanti e sorridenti ad accoglierci. Mi sono asciugata gli occhi e nitidamente mi è apparso uno scenario di vestitini sporchi e rotti, nasi gocciolanti, teste con la tigna, pancioni, chiaro segno di malnutrizione e tanti occhi luminosi, vivaci pieni di curiosità e contentezza. Mi sono gettata praticamente in mezzo a loro abbracciandoli e facendomi abbracciare. In quel momento mi sono sentita libera di piangere le lacrime che volevo versare, gustandomi a pieno quell’attimo carico di emozione e di calore. E ho ringraziato Dio.
Ogni giorno mi chiamavano dei bambini per farsi medicare la “donda” ( ferita). Un pomeriggio si è avvicinata una bambina di circa 4 anni, si chiama Gladi, aveva una minuscola ferita sul suo polso. Dopo averla medicata , senza guardarmi negli occhi per la sua timidezza, mi ha ringraziato con un filo di voce. Non ho resistito! E le ho dato una caramella. Con una calma incredibile, Gladi l’ha scartata e si è messa in bocca la carta, dopo averla succhiata per qualche istante l’ha gettata e ha cominciato a leccarsi la caramella. Con le mani appiccicose e con la bocca contornata da saliva resa rossastra dalla povere e rappresa dallo zucchero mi ha di nuovo ringraziato, stavolta guardandomi negli occhi e con un sorriso che mi dimostrava tutta la sua riconoscenza. E’ inutile porsi la solita ormai banale e inutile domanda: Perché esistono ingiustizie così profonde? Cito la Bibbia: ” Dio castiga coloro che ama”. Mi domando: Chi sono i castigati?
Gladi si ricorderà sicuramente della dolcezza di quella caramella ancora per un po’, poi forse dimenticherà. Io non potrò mai dimenticare il suo faccino sporco di polvere e non so cos’altro, divertito, sorpreso e sorridente gustarsi con tanto piacere quel pezzetto di zucchero condensato.
Quella notte stessa, erano le due, non riuscivo a dormire, pensavo a quali altre sorprese sarei andata incontro il giorno dopo. Sono uscita nel cortile. Il cielo! Le stelle! Così luminose e tante, tantissime e così vicine! Un piccolo dolore ai muscoli mi ha distratto e solo in quel momento mi sono accorta che erano passati venticinque minuti. Venticinque minuti in silenzio assoluto, al buio assoluto con lo sguardo rivolto verso il cielo. Che magnificenza! L’Africa mi dava il benvenuto regalandomi quello scenario, facendomi osservare ciò che vedevo senza il più piccolo inquinamento luminoso, con la notte davvero buia e silenziosa, misteriosa e mistica dove, di quel momento, l’unica protagonista ero solo io che non mi vedevo ma mi sentivo, con la pacata ed eterea sensazione di esistere. Ero viva, viva in quel preciso istante, viva nel presente! Africa! Ho sognato di andare in Africa da quando avevo solo 13 anni. Era il 1966 e la televisione trasmetteva programmi sulla situazione critica del Biafra. Sognavo di diventare suora missionaria e di salvare i bambini neri dalla fame. Sono passati tanti anni! Quasi quaranta. Stiamo progettando di andare in vacanza sulla luna e, la situazione in Africa è andata degenerando. Non mi sono fatta suora missionaria, ma “le vie del Signore sono infinite” e sono riuscita ugualmente a fare questo viaggio in terra africana. Per me è stato un mese intenso e straordinario: a stretto contatto con la filosofia di vita fino ad ora sconosciuta e lontano dalle ipocrisie di tutti i giorni, lontano dalle innumerevoli distrazioni, lontano dal tanto chiasso delle parole, lontano dall’ingordigia, dall’arrivismo e dalla superficialità. Credo di aver colmato, con una caramella, quel pezzetto di vuoto che tanto stagnava nel mio cuore e non riuscivo a riempire. Volevo aiutare l’Africa e l’Africa ha aiutato me.

Viaggio di condivisione del 2008

La missione ci richiede sempre di partire. Non necessariamente una partenza geografica. Ci richiede soprattutto una partenza da noi stessi, dal nostro egoismo, dalle nostre troppe comodità, dalla nostra ignoranza. Aiutare chi è più sfortunato di te dovrebbe essere parte integrante della nostra vita quotidiana, nella spontaneità e nella semplicità. Aiutare oggi, invece, non è semplice. Aiutare nella consapevolezza per evitare quegli errori che in qualche caso si sono verificati proprio per aver male interpretato l’identità delle popolazioni che vengono aiutate. Il concetto di aiuto spesso mi è sembrato ingannevole ed ambiguo. Siamo propensi ad un aiuto materiale e frettoloso, mentre aiutare davvero presuppone stare insieme all’altro, occuparsi dell’altro in una relazione complessa e difficile soprattutto se il nostro aiuto è rivolto a popolazioni tanto diverse da noi. L’aiuto porta in sé una duplice condizione: aiuto l’altro e contemporaneamente aiuto di me stesso.
Sono andata in Africa per aiutare, non so se questo è avvenuto, ma di certo l’Africa ha aiutato me . Più la medicina ci ha reso sani e puliti, più ci siamo evoluti tecnologicamente riempiendo le nostre case di ogni bene possibile, più ci siamo svuotati della nostra interiorità.
Loro hanno bisogno di istruzione. Noi abbiamo bisogno di ritrovare la nostra serenità interiore.
I loro bambini muoiono di fame, di malaria, di guerra. I nostri muoiono di noia.
Loro non hanno acqua. Noi ne consumiamo una quantità superiore a quella necessaria.
Potrei riempire pagine e pagine nel descrivere quello che loro non hanno rispetto a quello che noi abbiamo. Basta un rigo per descrivere quello che loro hanno e quello che molti di noi abbiamo perso: amore e senso di fratellanza.
Molte sono le associazioni di volontariato nel territorio nazionale che si occupano di aiuti umanitari rivolti a quelle popolazioni “sottosviluppate” o dilaniate dalle guerre. Il corso di formazione che vorrei organizzare è rivolto proprio a loro e dovrebbe essere basato proprio su “ Chi” andiamo ad aiutare, cosa abbiamo da offrire, come offrirlo e perché. Un corso laico strutturato con confronto attraverso il quale riuscire a far scaturire domande e risposte da sottoporre in sede finale ad esperti del settore. Spero di poter riuscire a concretizzare tutto ciò. Ringrazio Neema che mi ha accolto e mi regala sempre molte opportunità di crescita, come in questo caso.

Viaggio di condivisione del 2011

Nel mio percorso di vita, qualche hanno fa si è presentata l’occasione di diventare volontaria di un’associazione della cooperazione internazionale.
Una goccia nel mare, mi dicevano, ed un insieme di gocce fanno un mare! Ed è con questa convinzione che ho deciso di intraprendere questo percorso ed assecondare quell’esigenza di vita che fino a quel momento mi era sconosciuta. Tra mille dubbi e perplessità, oggi sono ancora parte di quel progetto che si chiama Neema.
Quest’anno insieme ad altre due volontarie, sono partita per la R. D. del Congo. Mi sono ritrovata nella realtà di un Paese pieno di contraddizioni e di equivoci. Un Paese che solo da cinque anni vive una condizione di apparente Democrazia.
Sono stata nel villaggio di Kirungu, vicino al lago Tanganica, dove l’Associazione Neema ha iniziato a collaborare, con la Parrocchia del luogo, alla costruzione di una scuola secondaria, voluta sopra ogni altra cosa dagli abitanti del villaggio stesso, comprendendo la necessità di dare ai loro figli un’istruzione con la speranza di un futuro migliore.
Le scuole sono state per la maggior parte distrutte nei 10 anni di guerra civile. Prese d’assalto dai guerriglieri che ne hanno fatto il loro ambiente di riparo, bruciando banchi, sedie, e quant’altro potesse servire per fare il fuoco.
Attualmente un preside congolese, che abita nel villaggio, di grande sensibilità ma, soprattutto, persona di notevole coraggio, tenta di ristrutturare un complesso scolastico, costruito nel periodo del colonialismo, capace di accogliere moltissimi studenti, ma ancora oggi a distanza di cinque anni dalla fine della guerra sembra un obiettivo quasi impossibile. Centinaia di documenti, pagelle, relazioni, tutti accatastati in un angolo di una stanza 3 x 3 che dovrebbe essere il suo ufficio, le aule sono prive del materiale necessario per portare avanti una didattica sufficientemente  adeguata, e continuano a mancare i banchi e le sedie, per comprensibili problemi economici.
Nel villaggio esiste un ospedale gestito dallo Stato, che, inesistente, lascia allo sbando l’unico medico e pochissimi infermieri, mal pagati o non pagati, con strutture fatiscenti, strumenti assolutamente inadeguati e pochissime medicine.
Ma nel villaggio la maggior parte della gente mangia. Ha la terra, che coltiva e che produce cibo.
Diversa è la situazione a Lubumbashi, capitale del Katanga, dove abbiamo avuto l’opportunità di trascorrere 5 giorni, in attesa dell’aereo che ci avrebbe riportate in Italia. Siamo state ospiti di una Parrocchia congolese.
Lubumbashi porta con sé, in modo molto evidente, tutti i segni del passaggio di una guerra, che ancora in alcune zone fa sentire la sua crudeltà. Qui i cittadini sono completamente privi di quei servizi che per noi sono annoverati con il termine di indispensabili. Le infrastrutture sono obsolete e la mancanza di manutenzione, nel corso degli anni, ha provocato un deterioramento notevole della rete idrica, fenomeno che permette infiltrazioni di sostanze nocive ed inquinanti, rendendo l’acqua di pessima qualità. Quindi il proliferare di malattie come il colera, tifo, vomitosi, oltre alla malaria, l’aids, il morbillo, la lebbra.
Le strade asfaltate sono inesistenti, facendo vivere la gente in una perenne nuvola di polvere, oltre al quasi forzato isolamento, soprattutto nel periodo delle piogge, quando l’acqua rende inagibile qualsiasi via di comunicazione. Però tutto il mondo, nonostante l’evidente corruzione del governo, continua a fare accori economici con il presidente che anche se eletto democraticamente è chiara e tangibile la non democrazia. Nel 2008 l’osservatorio per i diritti umani accusava il governo di Joseph Kabile, l’attuale presidente, di aver soppresso deliberatamente dal 2006 più di 500 oppositori politici.
Ho trascorso solo 5 giorni a Lubumbashi e mi sono stati sufficienti per comprendere una cosa: quelle centinaia di bambini catapultati nelle strade fatiscenti della città completamente allo sbando, abbandonati dalle famiglie perché non possono mantenerli, chiamati i bambini di strada, in cerca di cibo, di riparo, di affetto, saranno i giovani del domani e non oso pensare che tipo di adulti possano diventare, sempre che arrivino ad essere adulti. Confesso che nel vedere scene come quelle che ho visto, spesso mi sono cadute le lacrime e, mentre guardavo, mi domandavo: quanto è umano un mondo in cui da una parte, ci sono situazioni del genere e dall’altra, invece, si butta via tutto? Cosa c’è che non va in questo mondo? Perché proprio noi che facciamo parte dell’umanità, siamo capaci di arrivare a tanto? A permettere che bambini piccoli, innocenti, senza altra colpa che quella di essere nati, siano ridotti a vivere quelle condizioni? Eppure quasi ogni giorno, si parla di quei bambini ed inorridisco quando vengo a sapere che i rappresentanti degli organismi internazionali, anche dell’Unicef, arrivano a percepire stipendi che raggiungono i 12.000 $ al mese. Qualcosa davvero non funziona.
Ho partecipato al funerale di un giovane di 31 anni, e sono stata testimone di un’irruzione di gruppi di giovani, tanti, che ubriachi hanno invaso l’enorme cimitero facendo il chiasso più indecente con lo scopo di ricevere soldi dai familiari dei defunti ( quel giorno c’erano sette funerali) in cambio del silenzio. Mi sono chiesta quanto sia sottile il filo che divide il lecito dal non lecito. Mi sono chiesta: chi ha rubato l’infanzia a quei giovani facendoli diventare quello che sono diventati? E quei bambini dimenticati da tutti saranno poi i giovani che domani escogiteranno chissà quale orrore in cambio di pochi spiccioli? Mi sento coinvolta, perché faccio parte del mondo, in queste tragedie umanitarie che ogni giorno si consumano in tutti quei paesi da noi attualmente denominati in ” via di sviluppo”. Possibile che la mente umana possa generare tanto orrore?
L’Africa in particolare, nonostante gli innumerevoli interventi delle associazioni umanitarie, è sempre più umanamente deturpata e penso che noi “popolo sviluppato” abbiamo il dovere di fare comprendere a quei pochi che detengono il potere che è necessario cambiare politica ed iniziare un percorso di risanamento culturale.
Io sono una semplice volontaria che ha scelto la strada del volontariato perché è in questa veste che mi sento a mio agio ma mai come quest’anno, dopo essere tornata dal mio viaggio in Congo, mi sento impotente e coinvolta in un senso di colpa e responsabilità delle condizioni in cui vivono le popolazioni di quella terra. Riempirsi la bocca di parole politicamente corrette non serve se poi, di fatto, ognuno di noi torna al suo quotidiano che esclude l’altro lontano.
In previsione delle prossime elezioni del 28 Novembre, la tensione a Lubumbashi era molto alta, ed il parroco che ci ha ospitato non ha esitato ad informarci del suo sollievo per la nostra partenza. Mi viene in mente il monito del presidente John Kennedy, ripreso poi da Paolo VI nel suo intervento alla Nazioni Unite: “L’umanità deve porre fine alla guerra, oppure la guerra metterà fine all’umanità”.
Quando i potenti si accorgeranno della catastrofe alla quale andiamo incontro? Quando le persone di pace, che sono tante, riusciranno a trovare gli strumenti giusti per farsi ascoltare? Quante lacrime devono essere ancora versate perché il mare della giustizia possa essere colmato?
Penso che saremo obbligati a diventare migliori.
Ringrazio, con tutto il cuore, l’associazione Neema, che mi ha dato l’opportunità di vivere questa esperienza, in particolare il presidente Giuseppe che mi ha insegnato ad ascoltare il silenzio.

Stefania