Il 15 agosto di quest’anno (2015), per la seconda volta sono tornata in Tanzania nel villaggio di Mkongo insieme a Patrizia e a mio marito Libero. Al villaggio c’erano già Giuseppe e altri tre nuovi amici dell’associazione, Eleonora, Letizia e Rinaldo; Don Roberto, Enzo e Francesco li avevamo incontrati a Daar-Es-Salam nel loro viaggio di ritorno in Italia. E’ stato molto bello incontrarli, ma soprattutto incontrare di nuovo Baba Erick che è sempre molto gentile, attento e premuroso nei confronti di tutti noi. Quando arrivi al villaggio, dimentichi subito i disagi del viaggio perché è sempre una grande gioia rivedere gli amici africani, rivedere i bambini che ti corrono incontro festosi e sorridenti e vogliono subito giocare insieme a te, anche se i più piccoli nei primi momenti si tengono un po’ a distanza. Quest’anno ricorreva anche l’anniversario del 15° anno della fondazione dell’Associazione Neema e per l’occasione sono venuti al villaggio di Mkongo due amici di Neema, Baba Pio e Raphael arrivati da Kirungu nella Repubblica Democratica del Congo. Il loro viaggio, lungo e disagiato è servito per conoscere altri componenti dell’Associazione che non erano mai stati in Congo, per scambiare esperienze con i rappresentanti della comunità di Mkongo e per incontrare gli abitanti del villaggio. Hanno condiviso con noi e con gli altri i progetti futuri da sviluppare a Kirungu e a Mkongo, ma soprattutto ha arricchito tutti noi di una bella esperienza umana e di una dimostrazione di sincera amicizia. Il viaggio di quest’anno è coinciso anche con il nostro anniversario di matrimonio (43 anni), cosi Baba Erick durante la S. Messa lo ha annunciato ai fedeli che hanno partecipato con noi alla gioia di questo particolare giorno. Non nascondo che ci siamo emozionati moltissimo (l’età fra butti scherzi). In aggiunta a questo, la sera, in occasione della festa di saluto per la partenza di Giuseppe, Eleonora , Letizia e Rinaldo oltre ai regali per tutti noi, ci hanno anche preparato una bella torta nuziale decorata e gustosa che ci hanno donato tra i canti e i balli della loro tradizione musicale. Che cosa dire di queste persone meravigliose ? Che hanno pochissimo e quel poco te lo offrono con tutto il cuore e con grande generosità, ma hanno tanto da insegnarci, si perché loro ti trasmettono gioia, amore, felicità, semplicità e fratellanza. Di questo dovremmo farne tesoro e poterlo trasmettere ai nostri fratelli bianchi, sono sicura che sarebbe un vantaggio per tutti. Grazie Neema per avermi dato la possibilità di vivere questa meravigliosa umana esperienza e sono felice di far parte di questa bella squadra.
La savana, la gigante palla di fuoco all’orizzonte, occhi neri che ti divorano.. Fin da subito si capiva che il primo impatto con l’Africa sarebbe stato penetrante, senza filtri. E così è stato. La bellezza della natura e l’immensità di luoghi toglie il respiro sin dal primo momento che arrivi in Tanzania. Non è il rumore caotico, non è l’odore (talvolta nauseabondo) dell’aria ma lo stravolgimento di ogni regola a cui ordinariamente ti affidi nella tua comoda vita quotidiana. Il loro cibo è gustoso e ma allo stesso tempo più sporco, il cielo è più grande ma più nero (la via Lattea fa da lampione al posto delle luci dell’uomo), le piante sono più verdi, più rigogliose e più inquietanti, gli animali sono più maestosi ma pericolosi. Superati i primi nervosismi, dopo aver scoperto che l’acqua non esce ne’ dalle docce e ne’ dai rubinetti (sembra una banalità ma non lo è, fidatevi..) si cede il passo alla curiosità e poi, infine, alla commozione. Quel posto è troppo grande per te. Anche per la tua anima. Specie per la tua anima. A niente ormai servono più le tue vecchie tradizioni, i tuoi vecchi schemi non appena entri in contatto con i Tanzaniani. Strana specie la loro. Cantano, cantano, cantano e ballano. Ma quanto ballano? Ma soprattutto quanto sono bravi? I nostri più bei cori pomposi e pompati appaiono mediocri dopo aver sentito le melodie africane accompagnate dai loro famosissimi strilletti (ho provato per un mese a urlare come loro, non è possibile). La seconda lezione di vita arriva, come uno schiaffo, subito dopo che ti imbatti nei loro sorrisi. Occidentalmente parlando dovrebbero essere super depressi. Quanti like hanno nella loro foto del profilo di fb? Quanti Ryanair avranno mai preso? Nessuno. Mai. Eppure sono sempre contenti. Ma perché? Perché.. continuavo a ripetermi incontrando sempre più persone. Eppure il mondo africano conosce molto bene la violenza e la malattia. Cosa gli permette di avere tale invidiabile dignità? Niente. Proprio questo. Niente. Quando non hai niente non puoi che essere felice. Ancora una volta sei vivo e puoi gioire di un altro giorno, la polenta è più buona, l’acqua è più dissetante e il pallone da calcio non è mai stato così accattivante; e domani? chissà.. intanto mi godo oggi. E sorrido. Ma non solo.. questi strani Tanzaniani (io ho avuto l’onore di vivere tra loro per un mese, nel villaggio di Mkongo) sono pure generosi. Ma come? Eppure è così. Ricordo stavo ballando, o almeno tentavo di abbozzare una parvenza di ballo africano, e una vedova abbastanza in là con gli anni e decisamente povera, si avvicinò a me, mi sorrise e tirò fuori dalla sua tasca un dono per me. 1000 shilingi (30 centesimi). Probabilmente era ¼ di quello che possedeva ma niente di tutto ciò è bastato a impedirle di donarmi qualcosa di suo. Terza lezione di vita. Che cos’è la generosità in Europa? A Firenze? Quando mi avanzano 20 centesimi li dono in offerta? ma.. Ancora, il silenzio. Un altro elemento pressoché assente nelle nostre velocissime giornate.. Quanta meditazione in quelle savane. Più era immenso il paesaggio più aumentava il silenzio. Non ti restava allora che parlare con te stesso, pur di dialogare con qualcuno. È una riflessione che auguro ai molti. Constatando specialmente la freneticità dei nostri tempi. Concludo proclamando la mia infinita gratitudine verso i miei accompagnatori che mi hanno permesso di conoscere la VERA voglia di vivere. E di aver trasformato una fredda e arrogante ragazzina, capitolata di fronte all’umiltà di coloro che forse sono più civili di noi. La speranza è che chiunque goda di tale tenerezza.
Tornati in Tanzania per un’esperienza “missionaria”, siamo stati ospiti di Padre Damas Chale, sacerdote da circa un anno della parrocchia di Mkongo, diocesi di Songea. Un’esperienza, la nostra, compiuta sulla scia di precedenti viaggi nell’ambito del programma di “gemellaggio” voluto dalla parrocchia della Ginestra con quella di Mkongo e appoggiata dal Vescovo di Songea, S.E. Norbert Mtega e del Vescovo di Arezzo, S.E. Gualtiero Bassetti. Il filo conduttore con i nostri amici in Tanzania è ancora Padre Camillo, che molti di voi ricorderanno, e Padre Erick, ex parroco di Mkongo che, avendo perfezionato il suo italiano, ci ha permesso di entrare maggiormente nella realtà sociale e culturale ora affidata alle cure di Padre Damas. L’ho conosciuto durante i pomeriggi trascorsi in mezzo ai bambini giocando. Mi guardava con i suoi grandi occhi umidi, mi tese le braccia per farsi prendere. Fu così per alcuni giorni. Non avevo ancora compreso la parola “fame”. Quel pomeriggio, tornando dal laghetto dove i ragazzi tentavano di pescare con una rudimentale rete cucita nella scuola parrocchiale, quel pomeriggio trascorsi tutta la strada con lui in braccio: la sua testa appoggiata al mio petto, le braccia rilassate. Lo portai in cucina, bevve avidamente un bicchiere di latte e mangiò due frittelle. Vidi il sorriso nei suoi occhi e niente altro: era sordomuto. Ogni anno di più abbiamo preso consapevolezza delle problematiche di questa gente: le condizioni ambientali sono un serio ostacolo al progresso, le conoscenze tecniche sono primitive. È ricchezza avere qualche animale da cortile che comunque viene usato come prodotto di scambio per sale, zucchero, riso, medicine….Eppure questa gente è felice nonostante le ristrettezze, le basta poco per sorridere, sa insegnarci l’accoglienza e la generosità, sa guardare negli occhi e stringere la mano a tutti. È consapevole dell’inferiorità sociale ed economica rispetto al mondo progredito, sa di dover crescere e camminare, ma non si scoraggia se lo scarto è quasi abissale. Sa anche di non poter contare solo sulle proprie forze ma che serve l’intervento di Dio e sa anche aspettare i suoi tempi. È gente caratterialmente credente. Il volto di bambini poveri, di madri-bambine, di uomini precocemente raggrinziti, le loro povere case di fango, la loro dignità calpestata chiedono all’umanità giustizia e risarcimento. La mente va alla nostra civiltà dell’effimero! Quel pomeriggio di agosto, quando siamo partiti da Mkongo c’erano tutti i nostri bambini per l’ultimo abbraccio. C’era anche lui, il piccolo Tuaibo. Muti ci guardammo, il suo sguardo intenso annullava ogni mia parola facendosi emozione intima.
Viaggio di condivisione del 2005
Da una settimana manca l’acqua al villaggio. Le ragazze della scuola domestica hanno provveduto in qualche modo a portarcela dal fiume con i secchi. Anche se la cosa è gradita, per noi è una situazione imbarazzante: non vogliamo essere privilegiati. Con decisione Gianna ed io, che abbiamo iniziato a lavare il bucato e non abbiamo più acqua, prendiamo i secchi e ci precipitiamo al primo pozzo vicino alla casa: completamente asciutto! I bambini, che seguono ogni nostra mossa, ci indirizzano verso un altro pozzo, avvertendoci però che bisogna pompare l’acqua ed è faticoso. Con l’aiuto dei piccoli riempiamo i due secchi. Ecco il problema. Come portarli? I Wazungu li portano a mano. Tutti ridono del nostro modo goffo e staticamente sbagliato di portare i pesi. Infatti, qualcuno ha compassione di noi: Una nonna ed un bambino ci tolgono premurosamente i secchi di mano, se li caricano sulla testa con fare sicuro e affettuoso, arrivano a casa. Lungo la strada molti sorridono con ironia; le donne bianche non hanno la forza nelle braccia e tanto meno “sulla testa”. Ci sentiamo osservate, quasi un’attrazione: anche questa è Africa. Arriva il lattaio!! Oggi è “festa del latte” al villaggio. Lungo il viale di mango davanti alla chiesa “allestiamo” quanto serve: tavoli, festoni, biscotti, caramelle. Le ragazze della scuola domestica accendono il fuoco e su quattro mattoni mettono a bollire 40 litri d’acqua per volta. La distribuzione risulta ordinaria e gradita ai piccoli, ai ragazzi della scuola primaria, a padri e madri che, guarda caso, si trovano a passare di lì. Avanza comunque un bel secchio di latte. Ci guardiamo con aria interrogativa e decidiamo di…”fare il lattaio”. Ci incamminiamo lungo la strada del villaggio armati di bicchieri di plastica, latte e biscotti. Ad ogni casa chiediamo: maziwa? (latte?). nessuno rifiuta; alcuni portano il “bricco” da casa per riempirlo. Ad ogni sosta siamo accolti da una nonna e da un bambino, ma in pochi minuti ci troviamo accerchiati da intere famiglia e generazioni. Ridono tutti del nostro fare insolito ed anche noi ci divertiamo a tornare indietro nel tempo. Ormai la nostra sanità è così attenta nella prevenzione che alcune figure del mondo rurale sono bandite e noi non sentiremo più dire: “donne, c’è il lattaio”!
Viaggio di condivisione del 2008
Hai visto mai un mare cristallino e la voglia irrefrenabile di tuffarti in acqua ma di non saper nuotare? Hai visto mai un gabbiano nel tentativo tanto agognato di spiccare il volo verso il cielo ma di non poter volare? Questo è il Congo, questo è Kirungu! I cui abitanti consci della loro povertà, della loro impotenza, portano impresso negli occhi un tempo, in cui si poteva nuotare, un tempo in cui si poteva volare. La guerra! Come un ciclone ha lasciato dietro di sé macerie, è bruciato tutto nei grandi falò dei soldati ruandesi: porte, finestre, mobilio, banchi, sedie. Avevano da scaldarsi loro, avevano da mostrare chi comandava, consapevoli del loro scempio. È caduto tutto: la struttura dello stato, che non è in grado di far circolare la posta, di aprire banche, di gestire ospedali e scuole, uno stato bambino. È caduto tutto, ma non la speranza, quella no, quella non la si può bruciare ad un popolo. Questo, ci mostrano gli occhi delle persone ogni volta che incontri un comitato, un consiglio parrocchiale, un gruppo di giovani. Occhi che chiedono una mano a cambiare la speranza in realtà, occhi che chiedono collaborazione fruttuosa, occhi che dicono: fratello, insieme possiamo….hai visto mai!
Ciao sono Gabriele, il 2009 per me è stato un anno speciale perché ho deciso di passare le vacanze in modo diverso, andando in Africa con l’Associazione Neema. Nessuno può immaginarsi come sia là senza realmente esserci stato, per cui mi resta difficile raccontare e scrivere le mie emozioni. Arrivati a Mkongo l’impatto è stato talmente forte di fronte a quella realtà che non sono riuscito ad ambientarmi subito, non volevo credere a quello che stavo vedendo: miseria, malattie, scarse condizioni igieniche. Giorni dopo giorno però, vivendo a stretto contatto con loro ho iniziato a vedere l’Africa con occhi diversi. Ho capito che la malattia e la miseria vengono affrontate molto coraggiosamente e la vita è vista come un grande dono per cui vale la pena sorridere….e proprio i loro sorrisi mi hanno dato il coraggio di affrontare il mio blocco iniziale. I giorni passati lì si sono trasformati in giorni sereni e fondamentali nella mia vita….sarei rimasto per sempre! Il ritorno a casa mi ha lasciato un grande vuoto nel cuore e non vedo l’ora di tornarci. Ringrazio Neema e tutto il villaggio di Mkongo per questa magnifica esperienza.
……scrivi qualcosa per il giornalino dell’Associazione, mi dice Patrizia in macchina mentre torniamo insieme a Giuseppe e Paola da un convegno missionario. Fosse facile dico io, cosa posso scrivere d’interessante, proprio io che sono l’ultimo arrivato!? Siete tanti, e tutti avete avuto una o più esperienze dirette in Africa, chi meglio di voi? E il discorso cade lì. Capita poi, che mentre la sera stai guardando con l’indifferenza che si merita la tv, la frase di Patrizia ti torni in mente “dai Enzo scrivi qualcosa per il giornalino”. Solo il pensiero mi preoccupa e fra me e me penso: Come faccio a parlare dell’Africa, io che non ci sono stato! Poi una cosa comincia a frullarmi nella testa, è vero, non ci sono mai stato, ma io l’Africa la sto già vivendo e vedendo. La vedo e la vivo negli occhi e nella voce degli amici di Neema, nei loro racconti, nel loro impegno, nel loro entusiasmo, nella loro accoglienza, anche verso di me, insomma, l’hanno così ben inserita nella loro vita che trasuda da ogni loro atto e ti contagia. Mi torna allora alla mente la risposta che avevo dato a Patrizia “chi meglio di voi!”, quante volte l’avrò detto e quante volte avrò delegato gli altri? Penso ancora al vostro impegno e mi sento terribilmente egoista. Grazie Neema.
Viaggio di condivisione del 2009
Così ha esordito l’anziana donna “sasa ninaweza hata kufa na heri” e baba Erik, il parroco, ha tradotto “Ora posso anche morire felice”. Poi ha continuato: “perché so che i miei figli grazie a voi ora possono istruirsi ed essere curati”. Non sappiamo spiegare cosa abbiamo provato in quel momento, di sicuro però lo stupore per la frase ci ha commosso. Avevamo ancora negli occhi il dispensario, scarno, carente e con pochi farmaci. Avevamo ancora negli occhi la salma dell’uomo morto di malaria, per il quale avevamo pregato insieme alla moglie, mesta e sola nella stanzetta. Avevamo in mente tutte le necessità del villaggio ed i pensieri rivolti a cercare soluzioni per migliorarlo. E lei, l’anziana signora, si alza e dice quelle parole. Se questo per lei è tanto, come era prima! E l’enorme dignità della donna nel pronunciare quella frase? E la riconoscenza verso Neema? Impossibile non perdersi in mille pensieri, impossibile non fare paragoni fra di loro ed il nostro mondo. Allora la sera nel silenzio e nel buio, rivivendo altri momenti trascorsi in quei giorni, ci accorgiamo che non è solo l’anziana signora ad essere felice per quel poco che ha, ma anche gli altri abitanti del villaggio. Quelli che abbiamo incontrato sorridenti e gioiosi alla S. Messa di Natale, quelli che ci hanno stretto la mano per strada e soprattutto i bambini, che attaccati alle nostre dita, ci hanno accompagnato nelle nostre passeggiate. Allora come non ringraziarli per quello che ci hanno insegnato, come non ringraziarli per quello che ci hanno dato e come non tenerli nel cuore.
Viaggio di condivisione del 2011
Finalmente siamo partiti, la nostalgia per gli abitanti del villaggio e per quei luoghi cominciava ad essere forte. Il viaggio è stato lungo e non molto agevole ma…eccoci qui al villaggio di Mkongo. Strette di mano, saluti di ben tornati, volti noti sorridenti. Che meraviglia, siamo nuovamente con loro! Appena il tempo di posare i bagagli nelle nostre stanze e via…alla S. Messa dove tanti, tanti bambini vestiti tutti uguali riceveranno la loro prima Comunione, poi di nuovo strette di mano e foto, tante foto. Torniamo alle stanze per il meritato riposo. Il nuovo giorno arriva presto e con lui, gli appunti delle cose da fare, i progetti da portare avanti. Tutti rigorosamente da portare avanti nei sempre pochi giorni di permanenza. Ma sono solo i progetti scuola, dispensario e tanto altro le uniche cose importanti? No, non solo quello è importante! La convivenza e la condivisione sono forse più importanti. Dobbiamo vivere calati nella loro realtà stando attenti a somigliare loro il più possibile sia negli atteggiamenti che nei comportamenti. Noi non siamo lì per insegnare la nostra civiltà, il nostro stile di vita, siamo lì per condividere la loro. Quello che andiamo a fare insieme è, e deve essere, sempre e solo una collaborazione. Noi abbiamo solo altri mezzi, più tecnologia e più denaro, ma loro hanno più ricchezza. Non quella materiale ma quella spirituale, condividono, solidarizzano, si aiutano. Nella loro povertà più che ricevere, sanno dare. Ci hanno insegnato a stare insieme ed anche il nostro gruppo è diventato più unito di quanto già fosse. Per questo ora che siamo tornati a casa, soddisfatti di quel poco che siamo riusciti a fare, con le valigie vuote, ma il cuore pieno di insegnamenti, ringraziamo il Signore di questa nuova opportunità che ci ha dato.
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