Quest’estate alcuni responsabili dell’Associazione Neema sono partiti per il villaggio di Mkongo Nakawale, Tanzania. È un viaggio che hanno già affrontato altre volte, e ormai conoscono bene i luoghi, i volti e le necessità di questa terra che dista 6000 km dall’Italia. Stavolta però, a Giuseppe ed Enzo (associazione Neema) e a Don Roberto (parroco di Sant’Andrea Corsini) sono stati affiancati due giovani del Corso Missionario della Diocesi di Fiesole, Letizia e Rinaldo e due giovani della parrocchia di Sant’Andrea, Francesco ed io, Eleonora. Noi quattro invece siamo alla prima esperienza. Personalmente, era almeno una decina di anni che sognavo di andare in missione. In tutto questo tempo avevo formulato migliaia di ipotesi su come potevano essere i luoghi dove associazioni e volontari operano per migliorare le condizioni di vita di persone che vivono lontano dai paesi sviluppati, in situazioni ben diverse dalle nostre. Quando mi è stata proposta questa esperienza ero a dir poco entusiasta di partire, ma con l’avvicinarsi della partenza cominciavano a formarsi nella mia mente centinaia di dubbi: “sarò pronta per questo tipo di viaggio? Come potrò aiutarli laggiù? Come dovrò comportarmi nelle varie situazioni?”.
Finalmente il 2 agosto arriviamo a Dar Es Salaam e l’avventura comincia: in aereo non ho chiuso occhio e continuo a rimuginare su quanto ci aspetta nel prossimo mese. Usciti dall’aereoporto incontriamo Baba (padre) Eric, lo straordinario parroco di Mkongo. Dire che è straordinario è riduttivo, è una persona veramente saggia, disponibile, accogliente e generosa che con una macchina prestatagli da un suo amico ci porta al suo villaggio, distante da Dar circa 1000 km, cioè due giorni di viaggio in auto. Arrivati a destinazione nel tardo pomeriggio del 4 agosto (essendo inverno era già buio), troviamo diversi rappresentanti e responsabili della parrocchia e dell’intero villaggio insieme ad un centinaio di bambini – alcuni curiosi, altri proprio spaventati!- che ci accolgono cantando la canzone da cui l’associazione prende nome (Neema, appunto, che significa grazia del Signore). Emozionatissimi, assistiamo alla loro presentazione e ci presentiamo a nostra volta, tutto con l’aiuto di Baba Eric, l’unico a conoscere sia lo swahili che l’italiano. Molte persone erano curiose di vedere noi “wazungu” (uomini bianchi) e per molti bambini era la prima volta che vedevano qualcuno con il colore della pelle diverso dal loro, ma hanno capito subito che non c’era motivo di temerci, tanto che poco dopo ognuno di noi teneva tre manine per ciascuna mano! Poi quando hanno scoperto le nostre macchine fotografiche ogni momento era buono per chiedere una foto, e questo bastava a renderli felici. Dal primo giorno a Mkongo e fino a quando siamo tornati in Italia, i nostri carissimi amici africani non hanno perso occasione per farci sentire “accolti”.
Ammetto però che tutta questa gioia nell’incontrarci oltre a rendermi molto felice mi ha anche messo un po’ in imbarazzo: mentre loro festeggiavano il nostro arrivo e la nostra presenza lì, noi ammiravamo loro perché nonostante le complicate condizioni in cui vivono sanno sempre trovare il modo per sorridere ed affrontare la vita giorno dopo giorno, sopravvivendo con quel poco che hanno. In più, pensando al mondo “moderno” che per un mese ci siamo lasciati alle spalle, ho notato come davvero la loro vita sia più povera ma più vera: gli unici valori che contano lì sono la famiglia e l’unità tra gli abitanti del villaggio, a prescindere dalla fede religiosa, cristiana o musulmana. Un’altra cosa che mi è piaciuta molto è vedere come nessuno resta solo: a prendere l’acqua al pozzo (l’unico del villaggio) si va almeno in due, alle feste si va a piedi ma in gruppo, il vicino di casa accompagna un anziano cieco al dispensario distante chilometri da dove abitano… . Porterò sempre nel cuore i momenti in cui abbiamo consegnato al dispensario le apparecchiature mediche e alle suore quaderni e matite per le scuole: i volti del medico, delle suore indiane e degli infermieri brillavano di gioia, noi – se possibile – eravamo più felici di loro. Ma la cosa più bella è stata dedicare una parte dei soldi (che noi giovani avevamo raccolto con un autofinanziamento) all’acquisto di un materasso e un cuscino per un ragazzo gravemente disabile che per mantenere se stesso e la madre riparava biciclette e che fino ad allora dormiva su una stuoia (come del resto fanno tutti gli abitanti del villaggio…). Prima di partire abbiamo voluto lasciare ai nostri amici di Mkongo una parte dei nostri vestiti, e, personalmente, mi ha fatto veramente piacere sapere che alcune delle mie magliette e felpe sono state destinate a questo ragazzo così bisognoso. Nel periodo in cui siamo stati li, abbiamo visto quanto l’Associazione Neema ha fatto per il villaggio, abbiamo cercato di dare una mano nei progetti in corso e stabilito con loro quelli da intraprendere. Nonostante sia già stato fatto molto per loro, ogni giorno si presentano nuove problematiche che potranno affrontare solo con il nostro aiuto! Il nostro impegno è stato massimo e costante come lo sarà in futuro, con l’augurio che sempre più persone si aggiungano al nostro impegno.
Quando l’aereo ha cominciato a prepararsi per l’atterraggio, già ho provato una profonda agitazione e non era certo per la manovra, pensavo infatti che finalmente da li a poco avrei rivisto un caro volto amico, era dal luglio 2011 che non lo vedevo! Che fretta! Eccoci atterrati, le tante e pesanti valige ritirate e…. via fuori! Eccolo, è li, Baba Erik! Finalmente un abbraccio lungo a lui e insieme a lui a tutta l’Africa e al villaggio di Mkongo, dove dopo un paio di giorni sarei arrivato. Quello non era certo l’unico motivo di gioia, essa mi accompagnava da giorni e per diversi motivi. Avere Don Roberto, il mio parroco, e anche dei giovani che venivano da una preparazione missionaria diocesana, oltre agli amici di Neema con me, era veramente il massimo. L’idea di rinnovare con loro le mie esperienze rivivendo il mio primo impatto con l’Africa del 2009 mi entusiasmava. L’affiatamento del gruppo era stato istantaneo, sembrava che fossimo sempre stati insieme, che ci conoscessimo da una vita, quella vita che dopo più di mille chilometri si sarebbe integrata, direi fusa con quella di tanti altri: Gli abitanti del villaggio di Mkongo! Che gioia vedere e ascoltare i bambini sorridenti che intonavano il canto di benvenuto e i visi dei miei compagni di viaggio sorridenti fino alla commozione. Che gioia vedere i nostri giovani insieme a quelli del villaggio impegnati nelle varie attività, falegnami, muratori, sarte, infermieri. E io li con i grandi e Baba Erik a pianificare giornate, programmi, progetti di aiuto e di collaborazione per il villaggio. Certo in 15 anni Neema ha fatto un buon lavoro, ha costruito strutture, il dispensario per la salute, la scuola, grande aiuto formativo e di crescita per i ragazzi, ma soprattutto a costruito, fratellanza, condivisione e accoglienza. Insomma ha costruito gioia.
E’ stata la nostra volta in Africa di Elena e la mia; lo scorso anno siamo rimasti a Mkongo soltanto qualche giorno vivendo tutte le novità incontrate senza consapevolezza, troppe persone per ricordarsi di ognuna di loro, troppi colori per apprezzarne le sfumature, troppi odori per distinguerne la provenienza. Quest’anno è stato diverso, sapevamo cosa ci aspettava: la gioia dei bambini al nostro arrivo che ti vengono incontro con i visini rossi di polvere, i vestiti laceri ed imbrattati ed i piedini scalzi, il villaggio in festa che ti accoglie con tutto l’affetto immaginabile e pende dalle tue labbra quando dici che sei contento di essere li con loro e che non pensavi di avere così tanti amici. La consapevolezza che l’anno passato siamo venuti per un misto di curiosità e pietà umana ma quest’anno per un impegno preso con chi ci ha raccontato dei suoi problemi ed ha saputo ascoltare i nostri, con chi ci ha mandato per Pasqua e per Natale, con chi ha condiviso l’ultimo pugno di riso rimasto nel sacco o ha messo in pentola l’unico pollo del pollaio, proprio come si fa tra amici. L’amicizia , una parola così abusata nella nostra cultura e così vera e sentita in questo paese dell’Africa dove la gente più che voler essere aiutata vuol essere considerata, conosciuta, apprezzata, incoraggiata; sì, incoraggiata perché non è facile vivere dove la malaria si “taglia a fette”, l’acqua si nasconde nelle viscere della terra e l’aspettativa di vita è di 40 anni; c’è bisogno di coraggio la mattina quando ti alzi e la pancia brontola già per la fame ed ecco allora che una parola buona, un “habari za asubuhi” (che notizie porti stamattina , l’equivalente del nostro buongiorno) diventa un modo per dire “coraggio fratello/sorella oggi non sei più solo facciamo qualche passo assieme”; in quei momenti pensavamo di essere la loro stampella, la loro oasi, la loro speranza, ma tornando a casa ci siamo resi conto che siamo stati ancora una volta più fortunati di loro perché abbiamo imparato ad ascoltare il prossimo, a non evitare la nonna vedova che ti racconta di quanto fosse buono e giusto il suo defunto consorte, a far parlare il ferroviere quando si arrampica sugli specchi per un treno che è inspiegabilmente in ritardo, a prendere un caffè con il collega che non dorme perché la moglie è lontana e non è abituato a stare senza anche se il capo ti chiede un lavoro per ieri; ebbene sì cara Africa è un triste destino quello che ti costringe a dare molto di più di quello che ricevi.
Viaggio di condivisione del 2008
Stamattina, dopo la Messa, leggendo il giornalino parrocchiale che prendiamo ogni settimana in chiesa, abbiamo avuto ancora una volta modo di riflettere sul valore ed il significato del tempo. Mons. Mtega, arcivescovo della Diocesi di Songea- Tanzania, qualche anno fa ci disse: “In Africa il tempo lo si crea, nel mondo occidentale lo si usa”. Father Phil, parroco a St. Theresa ( Houston, Texas), apre la riflessione del giornalino settimanale con una provocazione: “Ti domandi mai per che cosa cerchiamo di guadagnare tutto questo tempo?”. Siamo negli Usa da un anno e viviamo una realtà quasi surreale, dove per prendere un caffè non importa più nemmeno scendere dalla macchina ma semplicemente parlare ad un microfono, strisciare una carta di credito e vedersi recapitare da una “mano” un bicchiere di carton-plastica con tanto di coperchio in modo che tu possa bere mentre guidi: il famoso “drive-through”. Stessa cosa per la farmacia, la lavanderia, il fast food ecc. Al supermercato se compri meno di 12 prodotti puoi usare le casse automatiche dove al massimo senti un computer che ti parla dandoti istruzioni su cosa fare e tu non puoi neanche dire Buongiorno o Arrivederci, non capirebbe e sarebbe comunque inutile, una “perdita di tempo”. In Tanzania, nel villaggio di Mkongo, dove abbiamo avuto la possibilità di andare per ben tre volte, il giorno dell’arrivo degli “amici bianchi” di Neema è preparato bei dettagli. Quando si arriva siamo accolti con balli e canti da tutto il villaggio per ore ed ore. Con ogni persona che incontri devi spendere almeno 5 minuti che è la durata minima di un saluto (come stai? Come stanno i familiari? I familiari dei familiari? Ed almeno 5 o 6 karibu, asante). A Mkongo non c’è mai fretta per niente, non c’è scadenza da rispettare, nemmeno per le comunioni che il parroco ha già organizzato da tempo. Si possono rimandare di qualche giorno, perché magari il parroco ha avuto un imprevisto oppure ospiti che lo hanno impegnato a lungo, oppure si è bucata la gomma ed, essendo quella l’unica macchina del villaggio, le comunioni si rimandano. Le persone aspettano, aspettano ed aspettano e se poi nessuno arriva vorrà dire che verrà il giorno dopo, vorrà dire che aveva un buon motivo per non arrivare. Non ci sono penali da pagare per “mancata cancellazione entro i termini” né rancori da portare verso nessuno. Quando qualcuno ti da un appuntamento ad una certa ora, è sempre un orario indicativo, può essere un paio d’ore prima come due o tre ore più tardi oppure tranquillamente il giorno dopo. Lo scopo di questo messaggio non è individuare quale è il ritmo giusto o sbagliato per vivere bene il nostro tempo, probabilmente stiamo parlando di due facce della stessa medaglia. Vogliamo solo condividere una riflessione che ci viene rafforzata dall’aver fatto entrambe le esperienze anche se in modalità diverse. Il tempo, in quanto limitato, è sicuramente la risorsa più “preziosa” che abbiamo. Non si può comprare, scambiare, riciclare o recuperare e per questo abbiamo il dovere di pensare a come utilizzarlo al meglio. Non è importante di per sé guadagnare o perdere tempo, l’essenziale è esserne consapevoli.
Era da tanto tempo che portavo nel cuore il desiderio di fare un viaggio in Africa, quella terra piena di colori, di paesaggi, di tradizioni. Nei mesi di Gennaio e Febbraio del 2009 il mio sogno è divenuto realtà: mi è stata data da Neema l’opportunità di andare in Tanzania per svolgere il mio lavoro riguardante la tesi. La ricerca è nata con l’obiettivo di analizzare la scuola di economia domestica, presente nel villaggio di Mkongo Nakawale e si è poi allargata all’analisi del ruolo delle donne all’interno della famiglia e del paese stesso, i contributi che esse apportano per uno sviluppo economico della Tanzania, considerando in gran misura il micro-credito ed i mercati come strategie di sviluppo in cui le donne possono assumere dei ruoli di fondamentale importanza. Durante la permanenza ho incontrato molte difficoltà soprattutto dovute alla lingua, dal momento che nel villaggio in cui operavo tutte le persone parlavano solamente swahili; per il lavoro di tesi che dovevo svolgere, facendo interviste ed imparando a conoscere tante storie di vita, il problema non era indifferente. Al contempo anche l’inserimento non è stato facile: sono società e culture totalmente diverse dalle nostre e con valori ormai spesso da noi occidentali dimenticati; essendo poi la prima volta che ero all’estero da sola e per di più per un lungo periodo, è stato difficile per me riuscire ad orientarmi, perlomeno all’inizio. Piano piano però sono riuscita ad inserirmi all’interno della realtà africana in cui mi trovavo e di ciò devo ringraziare con riconoscenza le donne del villaggio e le persone con cui operavo: l’incredibile accoglienza da parte della popolazione locale, gli abbracci, la tanta pazienza che hanno mostrato verso di me che non conoscevo la lingua, tutte le persone incontrate hanno favorito la mia integrazione in una terra prima di allora sconosciuta. La mia permanenza in Tanzania è durata quasi due mesi; potrebbe sembrare un periodo lungo, ma il rischio sarebbe sennò quello di vedere solo in parte cos’è l’Africa, quel continente di cui i mass media non parlano mai se no per il fattore immigrazione, quel continente fatto non solo di bambini con il pancione e le mosche negli occhi, ma un continente con la voglia di sorridere, di vivere e di essere motore del proprio sviluppo.
Ho sognato l’Africa fin da bambina; ho programmato la mia vita e i miei studi in funzione di questo sogno, prendendo strade che pensavo mi avrebbero condotto laggiù più velocemente e non come semplice turista e quando sono riuscita ad arrivarci, l’Africa non mi ha deluso. Ammetto che molte cose sono state diverse da quello che mi immaginavo…Ho scoperto l’esistenza di due afriche ben diverse l’una dall’altra: una che cerca di diventare come noi e l’altra orgogliosa di essere quello che è e che da noi vuole solo penne e caramelle, l’Africa dei bambini felicissimi di poter giocare con corde e frisbee. Nella mia Africa, quella del villaggio, quella che ho sempre immaginato, pace e silenzio sono le parole d’ordine. Al mattino, la notte si sentono solamente grilli, galline ed il suono dei tamburi in lontananza. Tutti sono silenziosi e parlano sottovoce e più con gli occhi che con la voce… se non fosse per la risata dei bambini non si sentirebbero neppure. Sembra che abbiano quasi paura di disturbare, ho forse ci vogliono solo insegnare che non c’è bisogno di urlare per farsi ascoltare. Gli anziani sono in pace, i nostri invece sono tristi; i bambini giocano con tutti e con tutto (il che equivale a dire con niente) e i grandi sorridono. All’inizio, abituata a difendermi continuamente come ero, non riuscivo a godermi niente, a sentire niente… ad emozionarmi; poi, quella gente, la natura, l’aria che si respira sono finalmente riusciti ad intaccare la barricata che mi ero così accuratamente costruita intorno per difendermi dal mondo. E all’improvviso sono riuscita a vedere il grande cielo d’Africa, i suoi colori, la risata dei bambini e loro grande voglia di vivere, la forza delle donne africane, che fanno impallidire le donne occidentali e ridimensionano subito le nostre manie di grandezza. Le persone si privano delle poche cose che hanno per omaggiarci; di tanto in tanto, ed in particolare modo la domenica, dopo la messa, si avvicinava un bimbo e ci metteva in mano un uovo oppure arrivava una nonna con un pollo o un casco di banane e nessuno di noi avrebbe voluto accettare quei doni, perché sapevamo che quella gente si stava privando di cibo; eppure se non lo avessi accettato sarebbe stata una grande offesa per loro; sarebbe stata pura carità e non è di questo che ha bisogno l’Africa. Non sono mancati neppure momenti di difficoltà. Pensavo che fosse più semplice essere d’aiuto, che bastasse aiutare e voler aiutare, invece non è sempre possibile fare quello che ci verrebbe istintivamente ed è pure sbagliato voler aiutare a tutti i costi per il gusto di farlo o per sentirci in pace con noi stessi; prima di riuscire a capirlo mi sono sentita veramente in difficoltà: si parte pieni di entusiasmo, pensando di cambiare il mondo e poi realizziamo che prima dobbiamo innanzitutto metterci da una parte e guardare, ascoltare, capire. Dopo venti giorni in Africa posso dire che l’esperienza fatta laggiù e stata unica, ma non credo che noi o perlomeno io, sia riuscita in qualche modo ad aiutare nessuno, piuttosto credo che siano loro ad aiutare noi ogni volta, ricordandoci per che cosa vale la pena lottare e gioire, per ricordarci per che cosa vale la pena soffrire ed ad insegnarci che non serve ottenere la luna per essere felici. Grazie a Mkongo, sono riuscita a ritrovare la pace, i miei sogni e parti di me che pensavo essere sepolte e se prima sognavo il giorno in cui sarei atterrata in Africa, adesso attendo con impazienza il giorno in cui ci tornerò e vorrei che fosse già domani.
Viaggio di condivisione del 2007
Anche quest’anno ad agosto siamo partiti, dopo mesi si attesa e sospiri, dopo un conto alla rovescia che sembra non finire mai; sette persone con sette aspettative diverse. E poi, finalmente, eravamo di nuovo lì, nella jeep ammassati gli uni agli altri. Tre giorni ci sono voluti per arrivare là, ed a mano a mano che ci addentravamo nell’interno, lontani dalle città, ci attaccavamo sempre più ai finestrini, per non perderci nulla. Il villaggio ci stava aspettando, come sempre, per darci il benvenuto, per offrirci il loro aiuto e la loro amicizia. E noi, dal canto nostro… non aspettavamo altro! Stare insieme a loro, ascoltare i loro canti di benvenuto, vederli danzare, giocare con i bambini, imparare a scambiarci i saluti con gli anziani del villaggio! Bellissimo! I nuovi erano stupefatti da tanta accoglienza, mai e poi mai si sarebbero immaginati una cosa del genere e noi, che avevamo già provato … ci sembrava di essere di nuovo a casa. Eh si, incredibile ma vero … in mezzo alla campagna africana, circondati da cose così differenti dalla nostra quotidianità, ci sentivamo più a nostro agio che mai. Il nostro soggiorno è stato tranquillo e pacifico, eravamo stati preceduti dal gruppo di luglio, e tante riunioni con le varie personalità del villaggio erano già state fatte, tante iniziative intraprese e a noi era stato lasciato il compito di terminarle … soprattutto una, l’elettrificazione del dispensario, che sembra cosa ormai fatta. Facile! Abbiamo pensato guardando il programma, una settimana ed abbiamo finito tutto!!! Ci eravamo dimenticati che eravamo in Africa… quello che noi occidentali diamo per scontato e per ovvio, lì non lo è. A volte prende lo sconforto, perché parti pensando di poter essere realmente di aiuto, di poter lasciare qualcosa di importante e di utile, che faciliti la vita a quelle persone. Poi ti accorgi che non cambierai il mondo, non è possibile e neppure giusto, che il tempo non è mai abbastanza e che prima devi conoscere quel paese, quella gente, la loro lingua; stare con loro e imparare tutto quello che puoi perché alla fine, la cosa più importante è riuscire a comunicare, in qualsiasi modo, a gesti, con i dizionari, con le danze e con i sorrisi. La cosa più importante che rimane a tutti noi dopo questi viaggi, è proprio lo scambio che c’è stato, il tempo passato a cercare di comprenderci ed a imparare reciprocamente le nostre lingue. E la voglia di tornare là il prima possibile. L’Africa è piena di contraddizioni, di difficoltà e di situazioni così banalmente semplici allo stesso momento. In tre settimane cambierai idea almeno 10 volte: spesso ti guardi intorno e pensi che non ci sia speranza, che quel mondo rimarrà sempre così incontaminato e primitivo, così lontano da noi. Un secondo dopo, incontri Johnny e Renata, che si sono messi a studiare sebbene non più giovanissimi perché vogliono cambiare la loro vita e quella della loro gente, perché hanno capito che è da lì, dallo studio, dall’apprendimento di nuove conoscenze che devono iniziare e che se prima non aiutano se tessi, non potranno offrire nulla alla loro gente. In questi momenti capisci che anche se non sei riuscita a costruire un pozzo, se riparti senza vedere il frigorifero funzionare non importa, perché già incontrare loro due è stata la cosa più bella di tutto il viaggio e capisci che sei riuscito a trasmettere qualcosa anche solo a due persone su 1000, ne è già valsa la pena. Potremmo partire super attrezzatissimi, cercare di concludere il più possibile con i nostri mezzi e ai nostri ritmi, ma ci perderemmo la parte più bella, la fondamentale: passare il tempo con loro, ed in più rischieremo di fare dei progetti perfetti per noi ma non nel modo giusto per l’Africa e gli africani. Quindi, costruiamo un pozzo in meno, ascoltiamo quello che hanno da dirci e costruiamo un’amicizia che vale almeno 10 pozzi messi insieme.
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