Avrei voluto allontanarmi dall’Europa e calarmi in quella realtà così distante
Viaggio di condivisione del 2005
Fin da quando ero adolescente sognavo di andare in Africa. Il continente nero, con i suoi paesaggi selvaggi, i suoi colori, le sue tradizioni, mi affascinava tantissimo. Avrei voluto allontanarmi dall’Europa e calarmi in quella realtà così distante, così diversa, così silenziosa. Desideravo conoscere quella gente, esplorare quel mondo lontano. Quest’estate finalmente il mio grande sogno è diventato realtà. Quando ho saputo della missione in Tanzania ho chiesto subito informazioni al parroco della Ginestra, sono stata accolta dal gruppo ed a luglio sono partita per il villaggio di Mkongo. Il mio entusiasmo cresceva riunione dopo riunione ascoltando i racconti di coloro che avevano già fatto l’esperienza. Era bello vedere come ognuno di loro aveva a cuore la gente di Mkongo. Ho da subito notato il loro entusiasmo, la loro voglia di aiutare quelle persone, di educarle senza stravolgere il loro modo di vivere, di condividere con loro delle esperienze nel rispetto totale della loro diversità. Mi sono sentita parte di loro. Nonostante avessi fatto mille domande riguardo all’esperienza che stavo per vivere, quando sono arrivata in Africa è stata tutta una scoperta.
Quante volte in televisione avevo visto quegli scenari di povertà e squallore! Eppure esserci, vedere tutto questo dal vivo è stata una delle emozioni più belle e più forti della mia vita. Respiravo davvero l’Africa! Quando siamo arrivati nel villaggio tutti ci aspettavano. I bambini correvano verso di noi a piedi nudi, sporchi, magri, malati. Quanti erano! Quell’istante rimarrà per sempre nella mia memoria. Il loro sguardo intenso, i loro sorrisi rimarranno per sempre nel mio cuore. In quei giorni a Mkongo ho potuto vivere una vita che non mi appartiene, ho avuto la possibilità di abbandonare il mondo civilizzato per assaporare il senso della vita e dare valore al tempo. Sono sicura che nel corso della vita mi troverò spesso a pensare all’Africa, alla semplicità di quelle persone, alla serenità che hanno saputo trasmettermi, all’amore che ho riscoperto. Nei momenti più difficili penserò a loro che riescono ad essere felici con niente, che non desiderano altro che una carezza e un po’ di affetto. Vivo nella speranza che in questo mondo si possa imparare sempre di più ad accettare e rispettare le diversità, non tanto per difenderle quanto per analizzarle ed utilizzarle per crescere in umanità.
Paesaggi immensi, lunghe distese di altipiani, cielo dai mille colori, stelle fino all’inverosimile. Vegetazione della stagione asciutta: dal verde degli abeti di montagna, alle molteplici sfumature di giallo dell’erba della savana. Alberi bellissimi ed altissimi: dai baobab ai mango, enormi ed eleganti. La strada da Dar Es Salaam corre per più di mille chilometri in bus, dove all’incrocio di Songea si svolta verso Mkongo; per un’ora e mezza percorriamo ancora una strada per metà sterrata, piuttosto accidentata. Un cucuzzolo con un bellissimo panorama sul monte Mkongo, ed ecco la parrocchia di Mkongo: una chiesa con accanto una piccola porta con ingresso, l’ufficio del parroco (Baba EriK, che ci è venuto a prendere all’aeroporto e ci ha accompagnato per tutto il viaggio), la cucina, un corridoio con diverse camere, la sala da pranzo/ricevimento.
Accanto alla cucina troviamo un piccolo cortile con legna, galline, pulcini, due piccoli cani e un gatto nero; un cancelletto di legno per passare in un grande cortile con fiori ed una fontana con rubinetto asciutto. Sul retro si trovano le stanze delle studentesse, il refettorio, la cucina affacciate alle aule della scuola professionale, in fondo i bagni. Oltre il cancello, comincia a prendere forma il laboratorio di falegnameria. È qui che ho avuto la fortuna di trascorrere un paio di settimane grazie all’associazione Neema. Erano anni che avevo il desiderio di fare un’esperienza di volontariato in un paese bisognoso, ma principalmente ero io che ne avevo bisogno, anche se non ho fatto volontariato concreto, niente di pratico, come volevo. Ho ricevuto tanto, non ho dato, ma ho soddisfatto l’interiorità del mio cuore. Le emozioni sono state tante ed intense: prima negative, causa adattamento igienico, poi bellissime. Mi sembrava di essere preparata, invece è tutto quello che non si riesce ad immaginare: gli occhi, la polvere, lo sporco di quegli splendidi bambini che ti guardano stupiti, ti vengono dietro, ti danno la mano, senza lasciarti fino a che non li saluti e insisti per farli tornare alle loro capanne di paglia, di legno o di mattoni; le donne con i loro kitenge coloratissimi che sedute per terra si fanno quelle splendide treccine in quei capelli neri e riccioli e tornano dal campo con in testa un grosso fascio di legna da ardere per cuocere un po’ di ugali (polenta) per i loro numerosi figli; le ragazze e i bambini, che tornano da scuola facendo molti chilometri a piedi, spesso scalzi, dalla pelle forte, portano secchi d’acqua verso la loro capanna, che ti salutano sorridendo con un “jambo”; i bambini che tengono in braccio i loro fratellini ancora più piccoli. Hanno artigianali biciclette di legno, e giocano con palle fatte con le foglie di banana, bellissime. Quei saluti, quegli inchini delle donne anziane davanti alla chiesa, che ti mettono in imbarazzo da quanto sono riverenti, riconoscenti, sono stupendi, ti riempiono l’anima. Le ragazze, che con grande equilibrio e fatica, ci portano secchi di acqua sopra ad una stoffa avvolta sulla testa per permetterci di lavarci, mi hanno fatto venire un bel senso di colpa, ma non ti permettono di farlo da sola! Quando parlano, abbassano la voce e ti danno continuamente il benvenuto. Come ci sono rimasta male quando in strada, avvicinandomi a dei ragazzetti in bicicletta, il fratellino di uno di questi si è messo a piangere! Certo ero una mzungu (bianca), come ci chiamano nella loro lingua, lo swahili. Il percorso di questo popolo è lento e complicato: sono passati all’improvviso dal niente, ai telefonini. Oggi hanno moto assordanti ed anche auto, anche se malridotte. Ma le scuole del governo, anche se sono presenti nei villaggi, non sono ancora in buone condizioni. L’istruzione e la salute devono essere un diritto, non una fortuna. Può apparire un luogo comune, ma queste persone ci fanno capire quanto noi occidentali non solo sprechiamo cibo, acqua e tanto altro, ma non riflettiamo mai abbastanza su quanto l’ingiustizia regni in questo pianeta. Come può l’uomo essere così crudele? È giusto un mondo dove prima di tutto conta la ricchezza? Ci siamo dimenticati dell’uomo. Gli africani nella loro povertà, ci insegnano che possiamo essere ancora umani. Asante sana!
Il titolo è “rubato” al nostro volontario Libero che questa mattina ha condiviso un post su facebook, uno tra i tanti che riguardano l’immigrazione, che spesso inveiscono contro gli immigrati anche riportando notizie false e senza nessun fondamento.
Nessun rimando alla pagina, ci limitiamo a riportare l’intero contenuto del post nella speranza di portare il lettore ad una riflessione su un argomento del quale sono piene le pagine dei giornali ma che in realtà non conosciamo affatto.
Questo post è di una studentessa di medicina. Un po’ lungo, ma vale la pena leggerlo. Vale la pena per comprendere meglio quello che stiamo diventando per la nostra pochezza. Quando il diverso diventa un problema invece che un arricchimento abbiamo un problema….ecco, pensiamoci. Facciamoci accendere quella spia rossa, forse in qualcuno un po’ impolverata, tutte le volte che sentiamo qualche imbecille che dice “chiudiamo i porti” o “prima gli Italiani”. Prima ci deve essere solo, unicamente, la nostra UMANITÀ. Buona lettura….
“Mi reco molto assonnata al congresso più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la seconda voce è “sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla tutela della salute”. Inevitabilmente penso “e che do bali”. Accendo Pokémon Go, che sono sopra una palestra della squadra blu. Mi accingo a conquistarla per i rossi. Comincia a parlare il tale Dottor Pietro Bartolo, che io non so chi sia. Non me ne curo. Ero lì che tentavo di catturare un bulbasaur e sento la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome di lallallà. Parla di persone. Continua a dire “persone come noi”. Decido di ascoltare lui con un orecchio e bulbasaur con l’altro. Bartolo racconta che sta lì, a Lampedusa, ha curato 350mila persone, che c’è una cosa che odia, cioè fare il riconoscimento cadaverico. Che molti non hanno più le impronte digitali. E lui deve prelevare dita, coste, orecchie. Lo racconta:”Le donne? Sono tutte state violentate. TUTTE. Arrivano spesso incinte. Quelle che non sono incinte non lo sono non perché non sono state violentate, non lo sono perché i trafficanti hanno somministrato loro in dosi discutibili un cocktail antiprogestinico, così da essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, che le donne incinte sul mercato della prostituzione non fruttano”. Mi perplimo. Ma non era un congresso ad argomento clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata? Decido di mollare bulbasaur, un secondino, poi torno Bulba, devo capire cosa sta dicendo questo qua. “Su questi barconi gli uomini si mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie. Famiglie come le nostre”. Mostra una foto, vista e rivista, ma lui non è retorico, non è formale. È fuori da ogni schema politically correct, fuori da ogni comfort zone. “Una notte mi hanno chiamato: erano sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Avevano le malattie che potrebbe avere chiunque. Che si curano con terapie banali. Innocue. Alcuni. Altri sono stati scuoiati vivi, per farli diventare bianchi. Questo ragazzo ad esempio”, mostra un’altra foto, tutt’altro che vista e rivista. Un giovane, che avrà avuto 15/16 anni, affettato dal ginocchio alla caviglia. Mi dimentico dei Pokémon. “Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo”. Metto il cellulare in tasca. ”Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo..” Mostra un’altra foto. Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita. “Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti li, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare”. Ora non c’è nessuno in aula magna che non trattenga il fiato, in silenzio. “Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Era morta. Non avevamo niente. Ho cominciato a massaggiarla. Per molto tempo. E all’improvviso l’ho ripresa. Aveva edema, di tutto. È stata ricoverata 40 giorni. Kebrat era il suo nome. È il suo nome. Vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni. Era incinta” ci mostra la foto del loro abbraccio. “..Si perché la gente non capisce. C’è qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze migliori di altre, dicono. Si, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi che asserite questo”. Fa partire un video e descrive:”Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma loro giustamente mi hanno risposto “non siamo pescatori”. Mi hanno dato un coltello da cucina. Quella donna non ha detto bau. Mi sono tolto il laccio delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale, vedete? Lei mi ringraziava, era nera, nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Si perché loro sono bianchi quando nascono, poi si inscuriscono dopo una decina di giorni. E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!”. Sorridiamo tutti. “Quest’altra donna, invece, è arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita in giù… Era incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde, grande sofferenza fetale. Con lei una bambina, anche lei violentata, aveva 4 anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina. E si prendeva cura della sua mamma. Tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva. Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha sbriciolati e ci imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo. Perché ci arrivano una montagna di giocattoli, perché la gente buona c’è. Ma quella bimba non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai.” Foto successiva. “Questa foto invece ha fatto il giro del mondo. Lei è Favour. Hanno chiamato da tutto il mondo per adottarla. Lei è arrivata sola. Ha perso tutti: il suo fratellino, il suo papà. La sua mamma prima di morire per quella che io chiamo la malattia dei gommoni, che ti uccide per le ustioni della benzina e degli agenti tossici, l’ha lasciata ad un’altra donna, che nemmeno conosceva, chiedendole di portarla in salvo. E questa donna, prima di morire della stessa sorte, me l’ha portata. Ma non immaginate quanti bambini, invece, non ce l’hanno fatta. Una volta mi sono trovato davanti a centinaia di sacchi di colori diversi, alcuni della Finanza, alcuni della polizia. Dovevo riconoscerli tutti. Speravo che nel primo non ci fosse un bambino. E invece c’era proprio un bambino. Era vestito a festa. Con un pantaloncino rosso, le scarpette. Perché le loro mamme fanno così. Vogliono farci vedere che i loro bambini sono come i nostri, uguali”. Ci mostra un altro video. Dei sommozzatori estraggono da una barca in fondo al mare dei corpi esanimi. “Non sono manichini” ci dice. Il video prosegue. Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. “Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai”. Non riesco più a trattenere le lacrime. E il rumore di tutti coloro che, alternadosi in aula, come me, hanno dovuto soffiarsi il naso. “E questo è il risultato” ci mostra l’ennesima foto. “368 morti. Ma 367 bare. Si. Perché in una c’è una mamma, arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero insieme, per l’eternità”. Penso che possa bastare così. E questo è un estratto. Si, perché il Dottor Bartolo ha parlato per un’ora. Gli altri relatori hanno lasciato a lui il loro tempo. Nessuno ha osato interromperlo. E quando ha finito tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in piedi e abbiamo applaudito, per lunghi minuti. E basta. Lui non ha bisogno di aiuto, “non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete aiutare, andate a raccontare quello che avete sentito qui, fate sapere cosa succede a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!”. E io non mi espongo, perché non so le cose a modo. Ma una cosa la so. E cioè che questo è vergognoso, inumano, vomitevole. E non mi importa assolutamente nulla del perché sei venuto qui, se sei o no regolare, se scappi dalla guerra o se vieni a cercare fortuna: arrivare così, non è umano. E meriti le nostre cure. Meriti un abbraccio. Meriti rispetto. Come, e forse più, di ogni altro uomo.”
Condividiamo piccoli e grandi problemi che affliggono i nostri amici africani, offrendo loro di accedere più facilmente alla cura della salute e all’istruzione.
Come ogni anno la nostra Associazione offre la possibilità di acquistare il calendario ricco di suggestive immagini di persone e luoghi dove Neema porta aiuti concreti da oltre vent’anni.
Per acquistare il calendario potete farne richiesta contattando Giuseppe Morbidelli al numero 328 414 8057.
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