Ed eccomi qua, dopo tanti anni col naso all’insù ad annusare l’aria per ritrovare i profumi di quella sera appena sceso dall’aereo, avvolto nel caldo tropicale, spaesato e un po’ impaurito, insieme ai miei compagni di avventura. Partiti un po’ per caso, un po’ per curiosità, ai piedi di quella scaletta d’aereo, muovevamo i primi passi in una avventura che non sapevamo avrebbe prodotto tanti frutti. Così mentre mi giro su me stesso in cerca di quelle sensazioni, i ricordi si affollano alla mente, mentre trascino le mie valige stra-pesanti e ondeggianti fuori dalla hall. Dopo tredici anni mi riaffaccio in questo paese meraviglioso con la curiosità di vedere cosa è successo al villaggio dove ho lasciato un pezzo di me stesso tanto tempo fa. Ho una strana e leggera ansia, che non so spiegare, ma che lascio fluire dentro senza contrastarla. Sarà la paura di non trovare quello che mi aspetto, ma poi in fondo cosa mi aspetto.. non lo so. E sarà per questo che provo quella strana sensazione che chiamo ansia. Comunque non c’è tempo per star troppo a pensare, è arrivato Eric ed è una gioia ritrovarlo e sentire che il tempo non ha scalfito il legame che era nato allora, in modo semplice e spontaneo, senza tante parole. Nessuno dei due ama troppo parlare, basta lo sguardo e un sorriso d’intesa. Dopo i saluti e le immancabili complicazioni sul trasporto dei bagagli siamo già in viaggio. Attraversiamo il paese da Dar giù verso il sud, tra paesaggi che via via si riaffacciano alla mente come familiari e rassicuranti. Già sento che questo sarà un viaggio diverso, forse meno operativo, ma ancora non so e non voglio sapere. Mi lascio portare senza chiedere troppo cosa farò. E cosi dopo due giorni di viaggio arriviamo a Mkongo. Mi ritrovo ancora una volta ad affinare tutti i sensi per ritrovare quella atmosfera che avvolge quel pezzo di terra sperduta e d’incanto tutti i ricordi riaffiorano e la sensazione più forte è quella di sentirsi a casa. Già a prima vista posso vedere le nuove costruzioni che negli anni son venute su anche grazie al nostro impegno, ma quell’aria che sembra immobilizzare il tempo mi colpisce ancora di più, mi attira a sé e mi immerge in quella realtà che sembra sempre sospesa sul trascorrere degli eventi. Respiro a pieni polmoni e ad ogni respiro mi sento pervadere di più da quella atmosfera. Ritrovo gli amici lasciati l’ultima volta, ne conosco altri e tutto è sempre cosi naturale che quasi mi sembra strano. Cosi i giorni cominciano a scorrere tra il dispensario e le varie faccende da sbrigare per organizzare i lavori futuri che completeranno la struttura e nel frattempo si consolidano i rapporti, fra di noi cinque compagni di viaggio e con gli abitanti. E via via comincio a scoprire il senso di questo mio viaggio. Sento che sta diventando un viaggio dell’anima. Un viaggio alla scoperta del valore dei rapporti che abbiamo costruito in tutti questi anni con quella gente. Era il 2000 quando arrivammo in un villaggio sperduto e quasi irraggiungibile, dimenticato e apparentemente insignificante. Privo di qualsiasi minima risorsa se non quella necessaria appena per sopravvivere, dove toccavi con mano l’impossibilità di cambiare qualcosa perché troppo poveri, troppo soli, quasi inermi difronte ad un mondo lontano che più avanzava , più li lasciava indietro in balia di se stessi, inesorabilmente. Istintivamente iniziammo a riparare quello che era rotto da anni.. qualche vetro alle finestre, qualche porta.. non c’erano nemmeno chiodi e martello. Nulla. E quando dico nulla è proprio nulla. Io con le mie valige di medicine mi misi al sevizio di una fila di gente interminabile che non vedeva un medico da anni, con le mie poche cose e conoscenze, ricordo davo tutto con una gioia dentro ricambiata dalla gratitudine che vedevo nei sorrisi di che veniva da me, anche se magari non potevo fare nulla per lui. Ma sempre venivo ringraziato con un sorriso. Ed ero pieno di riconoscenza per quella gente, gonfio di emozioni che non immaginavo poter contenere. Dovevo finire in fondo al mondo per trovare una felicità cosi. Scoprimmo io e i miei compagni di viaggio che oltre le cose materiali mancava la cosa più importante: il rapporto con qualcuno che li facesse sentire meno soli. Il senso di solitudine, la consapevolezza della distanza incolmabile tra loro e il resto mondo. Cosi capimmo che se volevamo fare qualcosa di utile dovevamo muoverci su due fronti contemporaneamente: l’aiuto materiale e la costruzione di un rapporto umano fraterno. Cosi in questi anni si è mossa l’Associazione, che non a caso si chiama “ Neema”, Anima.. si perché è l’anima che muove la mano e la indirizza nel verso giusto. Questo pensavo dentro di me in quei giorni e mi rendevo conto di quanto grande è stata l’ intuizione.. sicuramente una Ispirazione dall’Alto che, se posso essere un po’ presuntuoso, siamo stati bravi ad ascoltare. Ognuno ha fatto la sua parte, anche da lontano. Chi più operativo, chi meno, ma non meno coinvolto. Cosi ho passato il mio tempo in quelle settimane, facendo, ma soprattutto contemplando quello che era stato costruito negli anni e rendendomi conto di quanto importante fosse per quella splendida gente stare fisicamente con noi, condividere un pasto, un dialogo, un sorriso. Non conta solo il dispensario e le costruzioni che son seguite, pur di importanza vitale ovviamente, ma basterebbe dare un valore al sorriso che è nato sulle labbra di un bambino o di un vecchio o di un donna, per capire che è valsa la pena di buttarsi in questa avventura. E come ulteriore conseguenza del nostro impegno ho visto come questa impresa sta permettendo a quelle popolazioni di svilupparsi secondo i loro tempi e le loro aspettative. Il nostro lavoro è di supporto ad uno sviluppo autonomo e libero. Questa è vera cooperazione e un risposta, pur nel nostro piccolo, a molte domande che emergono prepotenti dai fatti di questi ultimi tempi in relazione ai flussi migratori. Son tornato ancora una volta carico di gratitudine e con un bagaglio di esperienza che arricchisce la mia vita e spero, un po’, anche quella di chi leggerà queste righe, se sarò stato capace di trasmettere, almeno una piccola parte di quello che abbiamo vissuto nella terra delle nostre origini.
Finalmente ho realizzato un sogno che tenevo nel cassetto dal lontano 1966! Andare in Africa! Il villaggio dove siamo stati io ed altre sette persone con le quali ho condiviso questa esperienza, si chiama Mkongo ed è situato a sud della Tanzania. E’circondato da altri 6 o 7 villaggi; la distanza degli uni dagli altri non sono riuscita a quantificarla, gli spostamenti, comunque erano lunghi e tortuosi ma li abbiamo visitati tutti portando ai bambini latte e biscotti. Certo non con la presunzione di risolvere, almeno per quei giorni, il problema fame, ma in punta di piedi, chiedendo permesso alla porta del villaggio con un dono in cambio della loro ospitalità. Adesso qualunque episodio racconti, anche solo la descrizione di paesaggi, mi sembra inadeguata e sminuita, perché negli occhi di chi ascolta non ritrovo il mio vissuto, le mie parole con riescono ad esprimere sentimenti tanto intensi. Non riesco a trasmettere le mie emozioni che sono state fortissime e sono indenni nel mio cuore che comincia a battere rumorosamente ogni volta che chiudo gli occhi e rivedo quei momenti tutti africani. Stefy, raccontami tutto! E’ come si vede in televisione? Non hanno cibo a sufficienza? Sono cristiani o musulmani? Come posso rispondere? Si, è vero tutto. Hanno poco cibo e sempre quello. Non hanno acqua, luce, le scuole sono appena sufficienti per imparare a leggere e scrivere, muoiono di malaria e vivono costantemente nella polvere rossa fuori e dentro le loro capanne. Ma quello che la televisione non fa vedere è, nella loro povertà e rassegnazione, la loro dignità, la loro tranquillità e oserei dire serenità, proprio di un popolo che conosce solo il perimetro della sua terra. Gente che non conosce il “male di vivere”, quel male che sta distruggendo la nostra società cresciuta troppo in fretta senza un’adeguata conoscenza. Il male di crescere senza conoscere. Appena sono arrivata il nodo alla gola per l’eccessiva contentezza ha cominciato a sciogliersi attraverso alcune lacrime; ho visto in maniera offuscata e ondulata, una quantità incredibile di bambini che ci sono venuti incontro urlanti e sorridenti ad accoglierci. Mi sono asciugata gli occhi e nitidamente mi è apparso uno scenario di vestitini sporchi e rotti, nasi gocciolanti, teste con la tigna, pancioni, chiaro segno di malnutrizione e tanti occhi luminosi, vivaci pieni di curiosità e contentezza. Mi sono gettata praticamente in mezzo a loro abbracciandoli e facendomi abbracciare. In quel momento mi sono sentita libera di piangere le lacrime che volevo versare, gustandomi a pieno quell’attimo carico di emozione e di calore. E ho ringraziato Dio. Ogni giorno mi chiamavano dei bambini per farsi medicare la “donda” ( ferita). Un pomeriggio si è avvicinata una bambina di circa 4 anni, si chiama Gladi, aveva una minuscola ferita sul suo polso. Dopo averla medicata , senza guardarmi negli occhi per la sua timidezza, mi ha ringraziato con un filo di voce. Non ho resistito! E le ho dato una caramella. Con una calma incredibile, Gladi l’ha scartata e si è messa in bocca la carta, dopo averla succhiata per qualche istante l’ha gettata e ha cominciato a leccarsi la caramella. Con le mani appiccicose e con la bocca contornata da saliva resa rossastra dalla povere e rappresa dallo zucchero mi ha di nuovo ringraziato, stavolta guardandomi negli occhi e con un sorriso che mi dimostrava tutta la sua riconoscenza. E’ inutile porsi la solita ormai banale e inutile domanda: Perché esistono ingiustizie così profonde? Cito la Bibbia: ” Dio castiga coloro che ama”. Mi domando: Chi sono i castigati? Gladi si ricorderà sicuramente della dolcezza di quella caramella ancora per un po’, poi forse dimenticherà. Io non potrò mai dimenticare il suo faccino sporco di polvere e non so cos’altro, divertito, sorpreso e sorridente gustarsi con tanto piacere quel pezzetto di zucchero condensato. Quella notte stessa, erano le due, non riuscivo a dormire, pensavo a quali altre sorprese sarei andata incontro il giorno dopo. Sono uscita nel cortile. Il cielo! Le stelle! Così luminose e tante, tantissime e così vicine! Un piccolo dolore ai muscoli mi ha distratto e solo in quel momento mi sono accorta che erano passati venticinque minuti. Venticinque minuti in silenzio assoluto, al buio assoluto con lo sguardo rivolto verso il cielo. Che magnificenza! L’Africa mi dava il benvenuto regalandomi quello scenario, facendomi osservare ciò che vedevo senza il più piccolo inquinamento luminoso, con la notte davvero buia e silenziosa, misteriosa e mistica dove, di quel momento, l’unica protagonista ero solo io che non mi vedevo ma mi sentivo, con la pacata ed eterea sensazione di esistere. Ero viva, viva in quel preciso istante, viva nel presente! Africa! Ho sognato di andare in Africa da quando avevo solo 13 anni. Era il 1966 e la televisione trasmetteva programmi sulla situazione critica del Biafra. Sognavo di diventare suora missionaria e di salvare i bambini neri dalla fame. Sono passati tanti anni! Quasi quaranta. Stiamo progettando di andare in vacanza sulla luna e, la situazione in Africa è andata degenerando. Non mi sono fatta suora missionaria, ma “le vie del Signore sono infinite” e sono riuscita ugualmente a fare questo viaggio in terra africana. Per me è stato un mese intenso e straordinario: a stretto contatto con la filosofia di vita fino ad ora sconosciuta e lontano dalle ipocrisie di tutti i giorni, lontano dalle innumerevoli distrazioni, lontano dal tanto chiasso delle parole, lontano dall’ingordigia, dall’arrivismo e dalla superficialità. Credo di aver colmato, con una caramella, quel pezzetto di vuoto che tanto stagnava nel mio cuore e non riuscivo a riempire. Volevo aiutare l’Africa e l’Africa ha aiutato me.
Viaggio di condivisione del 2008
La missione ci richiede sempre di partire. Non necessariamente una partenza geografica. Ci richiede soprattutto una partenza da noi stessi, dal nostro egoismo, dalle nostre troppe comodità, dalla nostra ignoranza. Aiutare chi è più sfortunato di te dovrebbe essere parte integrante della nostra vita quotidiana, nella spontaneità e nella semplicità. Aiutare oggi, invece, non è semplice. Aiutare nella consapevolezza per evitare quegli errori che in qualche caso si sono verificati proprio per aver male interpretato l’identità delle popolazioni che vengono aiutate. Il concetto di aiuto spesso mi è sembrato ingannevole ed ambiguo. Siamo propensi ad un aiuto materiale e frettoloso, mentre aiutare davvero presuppone stare insieme all’altro, occuparsi dell’altro in una relazione complessa e difficile soprattutto se il nostro aiuto è rivolto a popolazioni tanto diverse da noi. L’aiuto porta in sé una duplice condizione: aiuto l’altro e contemporaneamente aiuto di me stesso. Sono andata in Africa per aiutare, non so se questo è avvenuto, ma di certo l’Africa ha aiutato me . Più la medicina ci ha reso sani e puliti, più ci siamo evoluti tecnologicamente riempiendo le nostre case di ogni bene possibile, più ci siamo svuotati della nostra interiorità. Loro hanno bisogno di istruzione. Noi abbiamo bisogno di ritrovare la nostra serenità interiore. I loro bambini muoiono di fame, di malaria, di guerra. I nostri muoiono di noia. Loro non hanno acqua. Noi ne consumiamo una quantità superiore a quella necessaria. Potrei riempire pagine e pagine nel descrivere quello che loro non hanno rispetto a quello che noi abbiamo. Basta un rigo per descrivere quello che loro hanno e quello che molti di noi abbiamo perso: amore e senso di fratellanza. Molte sono le associazioni di volontariato nel territorio nazionale che si occupano di aiuti umanitari rivolti a quelle popolazioni “sottosviluppate” o dilaniate dalle guerre. Il corso di formazione che vorrei organizzare è rivolto proprio a loro e dovrebbe essere basato proprio su “ Chi” andiamo ad aiutare, cosa abbiamo da offrire, come offrirlo e perché. Un corso laico strutturato con confronto attraverso il quale riuscire a far scaturire domande e risposte da sottoporre in sede finale ad esperti del settore. Spero di poter riuscire a concretizzare tutto ciò. Ringrazio Neema che mi ha accolto e mi regala sempre molte opportunità di crescita, come in questo caso.
Viaggio di condivisione del 2011
Nel mio percorso di vita, qualche hanno fa si è presentata l’occasione di diventare volontaria di un’associazione della cooperazione internazionale. Una goccia nel mare, mi dicevano, ed un insieme di gocce fanno un mare! Ed è con questa convinzione che ho deciso di intraprendere questo percorso ed assecondare quell’esigenza di vita che fino a quel momento mi era sconosciuta. Tra mille dubbi e perplessità, oggi sono ancora parte di quel progetto che si chiama Neema. Quest’anno insieme ad altre due volontarie, sono partita per la R. D. del Congo. Mi sono ritrovata nella realtà di un Paese pieno di contraddizioni e di equivoci. Un Paese che solo da cinque anni vive una condizione di apparente Democrazia. Sono stata nel villaggio di Kirungu, vicino al lago Tanganica, dove l’Associazione Neema ha iniziato a collaborare, con la Parrocchia del luogo, alla costruzione di una scuola secondaria, voluta sopra ogni altra cosa dagli abitanti del villaggio stesso, comprendendo la necessità di dare ai loro figli un’istruzione con la speranza di un futuro migliore. Le scuole sono state per la maggior parte distrutte nei 10 anni di guerra civile. Prese d’assalto dai guerriglieri che ne hanno fatto il loro ambiente di riparo, bruciando banchi, sedie, e quant’altro potesse servire per fare il fuoco. Attualmente un preside congolese, che abita nel villaggio, di grande sensibilità ma, soprattutto, persona di notevole coraggio, tenta di ristrutturare un complesso scolastico, costruito nel periodo del colonialismo, capace di accogliere moltissimi studenti, ma ancora oggi a distanza di cinque anni dalla fine della guerra sembra un obiettivo quasi impossibile. Centinaia di documenti, pagelle, relazioni, tutti accatastati in un angolo di una stanza 3 x 3 che dovrebbe essere il suo ufficio, le aule sono prive del materiale necessario per portare avanti una didattica sufficientemente adeguata, e continuano a mancare i banchi e le sedie, per comprensibili problemi economici. Nel villaggio esiste un ospedale gestito dallo Stato, che, inesistente, lascia allo sbando l’unico medico e pochissimi infermieri, mal pagati o non pagati, con strutture fatiscenti, strumenti assolutamente inadeguati e pochissime medicine. Ma nel villaggio la maggior parte della gente mangia. Ha la terra, che coltiva e che produce cibo. Diversa è la situazione a Lubumbashi, capitale del Katanga, dove abbiamo avuto l’opportunità di trascorrere 5 giorni, in attesa dell’aereo che ci avrebbe riportate in Italia. Siamo state ospiti di una Parrocchia congolese. Lubumbashi porta con sé, in modo molto evidente, tutti i segni del passaggio di una guerra, che ancora in alcune zone fa sentire la sua crudeltà. Qui i cittadini sono completamente privi di quei servizi che per noi sono annoverati con il termine di indispensabili. Le infrastrutture sono obsolete e la mancanza di manutenzione, nel corso degli anni, ha provocato un deterioramento notevole della rete idrica, fenomeno che permette infiltrazioni di sostanze nocive ed inquinanti, rendendo l’acqua di pessima qualità. Quindi il proliferare di malattie come il colera, tifo, vomitosi, oltre alla malaria, l’aids, il morbillo, la lebbra. Le strade asfaltate sono inesistenti, facendo vivere la gente in una perenne nuvola di polvere, oltre al quasi forzato isolamento, soprattutto nel periodo delle piogge, quando l’acqua rende inagibile qualsiasi via di comunicazione. Però tutto il mondo, nonostante l’evidente corruzione del governo, continua a fare accori economici con il presidente che anche se eletto democraticamente è chiara e tangibile la non democrazia. Nel 2008 l’osservatorio per i diritti umani accusava il governo di Joseph Kabile, l’attuale presidente, di aver soppresso deliberatamente dal 2006 più di 500 oppositori politici. Ho trascorso solo 5 giorni a Lubumbashi e mi sono stati sufficienti per comprendere una cosa: quelle centinaia di bambini catapultati nelle strade fatiscenti della città completamente allo sbando, abbandonati dalle famiglie perché non possono mantenerli, chiamati i bambini di strada, in cerca di cibo, di riparo, di affetto, saranno i giovani del domani e non oso pensare che tipo di adulti possano diventare, sempre che arrivino ad essere adulti. Confesso che nel vedere scene come quelle che ho visto, spesso mi sono cadute le lacrime e, mentre guardavo, mi domandavo: quanto è umano un mondo in cui da una parte, ci sono situazioni del genere e dall’altra, invece, si butta via tutto? Cosa c’è che non va in questo mondo? Perché proprio noi che facciamo parte dell’umanità, siamo capaci di arrivare a tanto? A permettere che bambini piccoli, innocenti, senza altra colpa che quella di essere nati, siano ridotti a vivere quelle condizioni? Eppure quasi ogni giorno, si parla di quei bambini ed inorridisco quando vengo a sapere che i rappresentanti degli organismi internazionali, anche dell’Unicef, arrivano a percepire stipendi che raggiungono i 12.000 $ al mese. Qualcosa davvero non funziona. Ho partecipato al funerale di un giovane di 31 anni, e sono stata testimone di un’irruzione di gruppi di giovani, tanti, che ubriachi hanno invaso l’enorme cimitero facendo il chiasso più indecente con lo scopo di ricevere soldi dai familiari dei defunti ( quel giorno c’erano sette funerali) in cambio del silenzio. Mi sono chiesta quanto sia sottile il filo che divide il lecito dal non lecito. Mi sono chiesta: chi ha rubato l’infanzia a quei giovani facendoli diventare quello che sono diventati? E quei bambini dimenticati da tutti saranno poi i giovani che domani escogiteranno chissà quale orrore in cambio di pochi spiccioli? Mi sento coinvolta, perché faccio parte del mondo, in queste tragedie umanitarie che ogni giorno si consumano in tutti quei paesi da noi attualmente denominati in ” via di sviluppo”. Possibile che la mente umana possa generare tanto orrore? L’Africa in particolare, nonostante gli innumerevoli interventi delle associazioni umanitarie, è sempre più umanamente deturpata e penso che noi “popolo sviluppato” abbiamo il dovere di fare comprendere a quei pochi che detengono il potere che è necessario cambiare politica ed iniziare un percorso di risanamento culturale. Io sono una semplice volontaria che ha scelto la strada del volontariato perché è in questa veste che mi sento a mio agio ma mai come quest’anno, dopo essere tornata dal mio viaggio in Congo, mi sento impotente e coinvolta in un senso di colpa e responsabilità delle condizioni in cui vivono le popolazioni di quella terra. Riempirsi la bocca di parole politicamente corrette non serve se poi, di fatto, ognuno di noi torna al suo quotidiano che esclude l’altro lontano. In previsione delle prossime elezioni del 28 Novembre, la tensione a Lubumbashi era molto alta, ed il parroco che ci ha ospitato non ha esitato ad informarci del suo sollievo per la nostra partenza. Mi viene in mente il monito del presidente John Kennedy, ripreso poi da Paolo VI nel suo intervento alla Nazioni Unite: “L’umanità deve porre fine alla guerra, oppure la guerra metterà fine all’umanità”. Quando i potenti si accorgeranno della catastrofe alla quale andiamo incontro? Quando le persone di pace, che sono tante, riusciranno a trovare gli strumenti giusti per farsi ascoltare? Quante lacrime devono essere ancora versate perché il mare della giustizia possa essere colmato? Penso che saremo obbligati a diventare migliori. Ringrazio, con tutto il cuore, l’associazione Neema, che mi ha dato l’opportunità di vivere questa esperienza, in particolare il presidente Giuseppe che mi ha insegnato ad ascoltare il silenzio.
Volevo trasmettere a voi le infinite emozioni provate
Viaggio di condivisione del 2011
Ho iniziato a scrivere questa mia testimonianza non so quante volte. Perché?!….faccio parte dell’Associazione Neema da poco più di un anno ed una delle prime cose che ho fatto è stata quella di leggere le testimonianze degli altri “neemini” che hanno avuto la fortuna, come me, di andare in Africa, ed il mio primo pensiero, oltre ad essermi affascinata subito a quei racconti, è stato:” chissà se un giorno anche io potrò raccontare la mia esperienza…”. Era quello che volevo : trasmettere a voi le infinite emozioni provate!…ma oggi, qui con una penna in mano, mi rendo conto di quanto sia difficile invece far capire quello che ho intensamente vissuto, quello che un villaggio come Mkongo può riuscire a “regalarti”. Il mio viaggio in Tanzania, con Alessio e Claudia, è durato tre settimane: giorni lunghi, intensi, ricchi! Giorni pieni di sorrisi, colori, musica, amore, amicizia, rispetto, fratellanza ma anche giorni di crisi, pianti, stanchezza, lavoro, polvere, malattie, dolore….. La cosa bella è che adesso, in questo preciso istante, mentre scrivo e rivivo con voi quei momenti, mi rendo conto di quanto tutto sia stato così “importante” a tal punto da farmi capire, oggi più che mai, di quanto è meravigliosa la vita, in tutte le sue sfaccettature, e di quanto in questa vita io possa ritenermi fortunata! Sarei un’ipocrita se dicessi di sentirmi più buona, o migliore! Sarei un’ipocrita se dicessi che la mia vita è cambiata! Riadattarsi alla nostra società è così tremendamente facile! Ma lì ho cercato di vivere intensamente la mia esperienza, provando ad immedesimarmi nella loro semplice quotidianità e per questo nel villaggio mi sono adattata fin da subito. Insieme ai ragazzi della scuola facevamo lunghe camminate per andare a prendere l’acqua al fiume o al pozzo ed a sera quella “doccia” aveva tutto un altro valore. Sì, a Mkongo tutto acquista un altro valore ed è grazie soprattutto alle persone che ci vivono che noi “mzungu” ( straniero) riusciamo a capire qual’è il vero significato della semplicità! Le persone di Mkongo sono sostanzialmente povere ma quel poco che hanno lo rendono prezioso ed anche ai nostri occhi, abituati ad un’altra civiltà, piano piano tutto diventa bello: quel terreno rosso diventa automaticamente pieno di colori quando la gente cammina per strada; quel cielo, che alle 19:30 diventa così buio senza nessuna luce elettrica, sembra brillare ancor più illuminato da milioni di stelle…se alzi un braccio credi veramente di poter arrivare a toccarle con le mani. I bambini incuriositi ti guardano con i loro grandi occhi pieni di luce; vergognosi aspettano il tuo sorriso per poterlo restituire; aspettano che gli porgi la mano per poterla stringere; aspettano una parola in italiano per poterla ripetere. Ognuno di loro, in qualche modo, ti fa sentire speciale! Neema aiuta i popoli dell’Africa da circa 10 anni portando avanti dei progetti ed impegnandosi soprattutto in Italia con tante iniziative. Sono partita per il mio viaggio con tanta adrenalina e con il cuore in mano ma anche con tanta paura non conoscendo quella terra. Paura che è svanita quasi subito perché lì ho realizzato che anche l’Africa stava “aiutando” me ! Ci sono anche aspetti meno belli che l’Africa ti presenta ma, di “pancia”, riesco solo a trasmettere le mille emozioni che ho provato e che ancora sono e saranno vive dentro di me e che mi portano a vedere quella terra con il sorriso, nel bene e nel male, come fanno le persone che vi abitano di fronte alle difficoltà, le malattie, la morte. La loro forza, la loro fede, il rispetto che hanno per il prossimo e per le cose che possiedono, mi hanno veramente segnato. Mi hanno lasciato un qualcosa dentro di inspiegabile, un qualcosa che nei momenti più cupi riesce a farmi vedere sempre uno spiraglio di luce. Queste sono le vere emozioni che l’Africa ti lascia e che ti portano a vivere quel famoso “mal d’Africa” di cui tutti mi parlavano e che io mi chiedevo cosa fosse. Passa, ma ogni tanto riaffiora e quando torna vorresti non guarire mai…..
Viaggio di condivisione del 2013
LA MIA SECONDA VOLTA A MKONGO! <> ..mi ripetevo al ritorno dal mio primo viaggio in Tanzania. Poi la vita quotidiana inizia a riprendere campo e passa così velocemente il tempo (..2 anni!), che ho capito che era arrivato il momento di partire di nuovo, sentivo davvero la mancanza dell’Africa!! Quest’ultima esperienza è avvenuta con altri due volontari dell’Associazione Neema Onlus: Marco e Lucia. Compagni di viaggio molto piacevoli. La nostra permanenza è stata di 15 giorni, inferiore alla prima volta, ma sempre molto emozionante e produttiva! Arrivati al Villaggio, dopo tre giorni di viaggio dalla nostra partenza dall’Italia, ci siamo sentiti ..subito.. di nuovo a casa! Era ancora giorno, a differenza della prima volta che arrivammo quando il sole ormai era calato e gli abitanti erano già dentro le loro case, e non credevo ai miei occhi : almeno un centinaio di bambini che correvano davanti alla nostra jeep sventolando delle frasche di alberi, con le braccia alzate, in segno di benvenuto! La jeep che ci “scortava” di fronte la chiesa, dove già ci aspettava il “tamburisha” (presentazione/saluto a tutto il villaggio), si è dovuta fermare 50 metri prima perché la strada ormai era diventata impossibile da percorrere. Apro lo sportello e la polvere rossa mi fa chiudere gli occhi, inizio a sentirla sulla mia pelle, sui vestiti e nei capelli: in quel momento mi sono davvero resa conto che, finalmente!, ero di nuovo lì..a Mkongo!! La canzone “NEEMA” inizia a prendere nota con le voci delle persone che stavano aspettando il nostro arrivo e pian piano che riapro gli occhi mi sento le mani stringere da dita piccole: i bambini già si erano attaccati a me! Ho versato la mia prima lacrima di gioia quando ad un certo punto sento pronunciare il mio nome: Romina!! ..mi volto e vedo un sorriso immenso di una delle ragazze della scuola di cucito. Mi aveva riconosciuta! ..”Jambo!” ..riesco a risponderle con voce tremolante. Le faccio una carezza sulla guancia e lei mi prende per mano incamminandosi con me fino alla porta della chiesa. Inizio a scattare le prime foto, sia con la macchina fotografica che con la mia testa, perché quel momento non avrei voluto finisse mai! L’accoglienza in parrocchia è stata, come sempre, molto generosa. Baba Eric, felice del nostro arrivo, ci aveva assegnato una stanza ciascuno e il nostro secchio di acqua era già sotto il lavandino della camera (dato che l’acqua anche questa volta è venuta a mancare!). Dopo aver rattoppato un po’ la zanzariera sopra al letto ci siamo messi a riposare. Avevo dimenticato quelle sensazioni: il piacere del silenzio e del buio della notte ma anche la paura dei ragni e delle zanzare!! Nei giorni di permanenza siamo riusciti ad incontrare molte persone della parrocchia che ci hanno aggiornato sull’andamento del villaggio: dalla ristrutturazione delle chiesa ai frutti economici dati dai raccolti, dalle problematiche per la mancanza di acqua agli sviluppi sull’arrivo dell’elettricità grazie all’intervento del Governo. Abbiamo passato molto tempo al dispensario con il dottore, il tecnico di laboratorio e le infermiere Suor MaryGrace e Olivia. Ogni mattina accompagnavo Lucia( Dottoressa Ginecologa ) per le visite programmate per fare i pap-test. Anche quest’anno siamo riusciti a farne più di 50!!! Inoltre, grazie all’ecografo che ci è stato donato in Italia, e spedito con un container lo scorso dicembre, siamo riusciti a fare anche molte ecografie. Veramente una bella emozione, sia per noi che per loro!! Questo infatti è stato possibile soprattutto al positivo riscontro avuto dalle donne, le quali hanno capito l’importanza di una visita ginecologica. Ci auguriamo che questo nostro progetto possa continuare ad avere campo; insieme continueremo sempre più a migliorarlo!! E’ stato bello conoscere nuovi volti africani , ed è stato altrettanto bello rivedere quelli già amici! Il terzo giorno al villaggio Baba Eric, dopo la consueta colazione insieme, mi comunica che fuori dalla parrocchia c’è “LA MIA AMICA” che mi stava aspettando. Nel 2011 Eric aveva chiesto a due ragazze della scuola di cucinare per noi ai pasti, per tutto il periodo della nostra permanenza. Le studentesse erano Jesca e Lucy: due persone molto educate e brave a scuola! Le incontravo ogni giorno e spesso capitava di passare pomeriggi insieme. Ricordo ancora quando fecero dei miei capelli tante piccole trecce!! Mi ero affezionata molto a loro ed anche se non riuscivamo a dialogare molto bene per via della lingua i nostri occhi riuscivano sempre a farci capire. Ho sempre portato le ragazze nel cuore in questi anni, sapendo bene che al mio ritorno molto probabilmente non le avrei più incontrate dato che l’ottobre successivo concludevano gli studi. Alla parola AMICA però il mio pensiero è andato subito a loro! Esco in fretta dalla parrocchia e là fuori, con un enorme papaya e due uova in braccio, c’era lei…Jesca! Riesco ancora a sorridere e a emozionarmi per quell’incontro: ero felicissima di vederla ed ero stupita anche di vedere che aveva dei doni per me!! Il pensiero arrivato subito dopo però è stato: “e adesso come glielo dico che sono felice?!” Eravamo solo io e lei in quel momento ma, in un attimo, il suo sorriso mi ha risposto…non c’era niente da dire, ci siamo semplicemente abbracciate!! E’ bello fare il volontario, è bello andare in Africa ed è bello riuscire a portare cose materiali in Africa, ma è anche facile per noi! Aiutare chi è meno fortunato mi porta sicuramente tanta serenità nel cuore anche perché quello che i nostri amici africani ci “rendono” ha altrettanto valore. Sapere però che anche tu sei nel loro cuore perché la mano che dai è anche quella per passeggiare insieme, perché li hai fatti sorridere per aver pronunciato parole in Swahili senza senso, perché hai cantato e ballato con loro, perché un’amicizia è nata….questo il mio cuore lo riempie di gioia!! Ed è questa l’emozione più bella che potessi provare nella mia seconda volta a Mkongo!! Anche questa è l’Africa….
Sono qua a raccontare la mia seconda volta in Tanzania, la mia seconda volta a Mkongo. Dopo l’impatto emotivo della prima volta in quella terra e la conoscenza di realtà diverse, la mia vita ha subito qualche cambiamento sul modo di pensare e di vivere. Da qui nasce il desiderio di ripartire. Mi piacerebbe che molte altre persone provassero le sensazioni che io ho provato percorrendo la strada, che da qui porta al villaggio, dove l’accoglienza e la disponibilità della gente è qualcosa di straordinario. Nell’anno 2003 il mio soggiorno a Mkongo fu per ragioni diverse, abbastanza limitato, per cui non avevo compreso bene quale fosse l’entità del villaggio, delle persone che lo abitano, del loro modo di vivere. Questa volta ho constatato la vastità di questo territorio, ho conosciuto le difficoltà che questo popolo incontra nella vita di tutti i giorni, ma ho altresì conosciuto la maniera con cui riescono a superarle. Da parte mia, come di tutto il gruppo, ho potuto dare a quelle persone solo piccole cose, ricevendo in cambio GRANDI COSE! Ricordo con piacere le giornate nelle quali andavamo presso gli altri villaggi per distribuire latte e biscotti ai bambini ed anche agli anziani; rivedo i più piccoli tendere le loro manine, sporche di terra rossiccia, per prendere un bicchiere di latte e qualche caramella, mentre mi guardavano con i loro occhioni scuri. Ricordo altri episodi che dimostrano la loro disponibilità verso di noi, come per esempio il procurarci dell’acqua perché potessimo fare una doccia. Non mi dilungo ulteriormente. Occorrerebbero cento, mille pagine per raccontare quello che, se non vedi, non capirai mai.
Viaggio di condivisione del 2011
C’è una storiella ( o proverbio) che dice “non c’è due senza tre”; ed eccomi puntuale alla mia terza volta in Tanzania. Anche stavolta nel villaggio di Mkongo, dove, la prima volta provai una delle più forti emozioni della mia vita. Avrei voluto tonarci subito…il giorno dopo! ( era Luglio 2003). Ho avuto la fortuna di poterci tornare nuovamente ad Agosto 2006 e lo scorso Luglio 2011. A distanza di otto anni, devo confessare che riguardo ad emozioni, poco o nulla è cambiato in me. Sono stato in quel grande paese che si chiama AFRICA per tre volte e con tre gruppi diversi della nostra associazione. Tutto egualmente meravigliosi per amicizia fraterna, collaborazione ed entusiasmo; per cercare di realizzare i progetti che ci proponiamo alla partenza. Abbiamo passato ore e giorni bellissimi insieme ad uomini, donne e bambini del villaggio, partecipando a cerimonie religiose (anche molto lunghe!) officiate da Padre Erik; sempre presente anche agli incontri con i rappresentanti delle varie attività, per discutere le loro priorità e le nostre possibilità pratiche (ed anche economiche) di poterle realizzare. Ho ritrovato vecchie conoscenze, conosciuto nuove persone, tutte semplicemente meravigliose nel prodigarsi a rendere il nostro soggiorno fra loro il più sereno possibile. E ci sono riusciti. Siamo tornati con l’animo pieno di gioia (ed anche con un pizzico di orgoglio) per quello che abbiamo realizzato. Non so se questa sarà stata per l’ultima volta o se il destino deciderà diversamente. Posso comunque dire che queste esperienze hanno lasciato un’impronta indelebile nel corso della mia vita. E di questo ringrazio Dio.
Mi sembra ancora un sogno … ma è vero, è successo davvero!!! Grazie a Chiara che mi ha fatto conoscere l’associazione Neema sono partita per la mia prima esperienza a Mkongo da molto tempo desiderata. Il tragitto per arrivare al villaggio è stato lungo ma bellissimo per il susseguirsi di luci e di colori che solo un paese come l’Africa può offrire, un continuo cambiare di panorama e scenari .. ero così presa da tutto ciò che il tempo mi è volato. All’arrivo a Mkongo abbiamo avuto un’accoglienza così grande, calda che mi sono venute le lacrime agli occhi; mai visti tanti bambini, uomini e donne di ogni età, loro non hanno veramente niente ma ti trasmettono subito grandi cose, sono sorrisi, i karibu (benvenuto), i canti, le musiche, le strette di mano e gli applausi. Nei primi giorni i bimbi con le loro manine sporche di terra hanno cercato le nostre, prima quasi con timidezza poi con più forza quasi a voler dire “ora non ti lascio più”. E’ stato così fino all’ultimo giorno e quando ci siamo salutati io ero di nuovo con gli occhi pieni di lacrime. E’ difficile spiegare le emozioni che ho provato perché sono state forti, grandi che solo se le vivi e le tocchi con mano puoi veramente capire. Durante la nostra permanenza al villaggio ci sono stati anche dei momenti di difficoltà di adattamento, in quanto non è semplice vivere una realtà completamente diversa dalla nostra ma “pole pole” (piano piano) e soprattutto grazie ai sorrisi, a quegli sguardi che ti cercano di continuo, agli schiamazzi dei ragazzi tutto è diventato più facile e lo stato d’animo è tornato a brillare. Ora che sono a casa penso spesso al villaggio, agli occhi scuri e belli dei bimbi, alle donne che mi dimostravano tanta accoglienza ed anche se non ci capivamo con il linguaggio mi sono sempre sentita a mio agio, come se le avessi conosciute da sempre. Mi ricordo le loro risate quando io cercavo di parlare in swahili, quando mi chiedevano di farle una piccia (foto) ed il loro divertimento nel rivedersi. Tutto questo mi manca tanto e non lo potrò mai scordare, soprattutto non lo voglio scordare; anzi spero un giorno di ritrovarmi di nuovo lì a Mkongo con quella gente che attraverso la loro semplicità mi ha dato modo di riflettere e di capire i veri valori della vita.
Quando mi hanno detto che nell’associazione vi era la tradizione di riportare una testimonianza personale dopo il primo viaggio in Africa, non ho reagito positivamente; le cose semplici sono state dette molte volte da chi mi ha preceduto, ed i ragionamenti per architettare qualcosa di nuovo rischiano di scivolare in retorica sterile. Poi, leggendo le cose uscite dai miei compagni, ho capito che era più facile di quello che mi ero prefigurato, perché al di là dei motivi per i quali si può intraprendere un viaggio nell’Africa nera, questo rappresenta veramente una esperienza del tutto nuova e ricca, che porta a misurarsi con situazioni molto diverse da quelle cui siamo abituati. Io sono partito con la convinzione che in quella parte del mondo si trovasse semplicemente gente più sfortunata che ha bisogno di aiuto; effettivamente (ora lo posso dire), là dove è stata risparmiata da guerre e carestie, come in Tanzania, essa è composta da comunità le quali vivono ancora coerentemente secondo un modello un poco diverso da quello occidentale. Grazie alla dolcezza che caratterizza queste persone, è possibile entrare un attimo nella loro realtà. La ricchezza che viene offerta, basata sia sugli spunti di riflessione dati dal confronto della nostra e della loro condizione, sia sui rapporti umani che si possono coltivare nel periodo di permanenza, è davvero grande. E’ successo spesso che in comportamenti ritenuti bizzarri dai nostri occhi, con un po’ d’attenzione, riconoscessimo abitudini raccontate da anziani parenti, relative alla vita prima della guerra. Altri episodi ci sono risultati semplicemente nuovi ed impossibili, come la carovana di alunni che portavano un mattone ciascuno per costruire l’abitazione del nuovo maestro appena arrivato. Aver visto la vita del villaggio di Mkongo mi ha fatto capire davvero la differenza abissale che separa una condizione di povertà da una condizione di miseria.
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